Il nuovo Partito Democratico non avrà come leader Matteo Renzi. Ma prima di guardare al suo futuro incerto il PD dovrebbe fermarsi a chiedersi cosa è andato storto: perché dopo due campagne elettorali fallimentari il “rottamatore” è già da rottamare?

Nel salotto della Gruber a Otto e Mezzo Marco Travaglio ha fatto notare che il PD guidato da Matteo Renzi ha perso in tutti gli appuntamenti elettorali successivi alle elezioni europee del 2014, nelle quali ha stravinto solo perché nessuno sapeva di cosa sarebbe stato capace il neo-segretario, eletto alla fine dell’anno precedente.

Se il giudizio del direttore del Fatto Quotidiano che qui non intendiamo discutere è senza dubbio consapevolmente semplicistico, è però vero che – anche escludendo tutte le tornate non nazionali, che non hanno sorriso al centrosinistra – sia il referendum del 4 dicembre 2016 che le elezioni appena passate hanno registrato una condanna netta degli elettori al PD a guida renziana.

Molti in questi giorni stanno analizzando – e spesso criticando – il discorso nel quale Matteo Renzi annuncia le dimissioni, accusandolo di non essersi assunto le proprie responsabilità fino in fondo.

Proviamo invece a prendere una strada diversa dal cercare in un discorso di qualche minuto i motivi di un fallimento costruito in anni. Guardiamoci indietro. Cosa ha portato il PD a dimezzare i suoi consensi dal 2014 a oggi? E se il Partito Democratico rivendica tuttora con orgoglio le riforme fatte in questi anni, ignorando il giudizio negativo uscito dalle urne, allora è possibile che il problema sia innanzitutto comunicativo? Per scoprirlo ripercorriamo brevemente le diverse strategie adottate dal PD in occasione delle campagne elettorali per le votazioni del 4 dicembre e del 4 marzo.

Partiamo dal referendum costituzionale.

A poco più di un anno di distanza dalla consultazione referendaria resta nella mente degli italiani soprattutto una polemica, mai definitivamente sopita: la fine annunciata e mai realizzata della carriera politica di Matteo Renzi. «Se perdo il referendum io non solo vado a casa, ma smetto di far politica», aveva dichiarato l’ex Presidente del Consiglio in molteplici interviste nel biennio 2015-2016 e anche in un Consiglio dei Ministri datato 2014.

Ma una personalizzazione così forte del confronto si rivela efficace solo quando si vince. Ciò non è avvenuto, e agli occhi degli italiani – e non solo degli aficionados grillini e leghisti, come vorrebbe suggerire qualcuno – la credibilità di un uomo che era entrato in politica per “rottamare” la vecchia classe politica è decisamente crollata insieme al mancato rispetto della promessa fatta.

Renzi si è allora presentato ai blocchi di partenza della campagna elettorale per le elezioni politiche con tutt’altra strategia.

Niente più Jim Messina, niente più demonizzazione degli avversari come “accozzaglia”, niente più onnipresenza televisiva del leader. Renzi ha fatto un passo indietro – mediaticamente parlando – per lasciare spazio alla grande pluralità di voci che formano il Partito Democratico, insistendo su quanto fatto dai governi targati PD negli scorsi anni per presentarsi come l’unico serio partito di governo in grado di realizzare riforme concrete. Persino lo spot del «Sicuro sicuro?», del padre di famiglia incerto che non vuole più votare PD, è occupato quasi interamente da un’inverosimile scenetta nella quale i familiari ripercorrono i principali traguardi dell’ultima legislatura.

Insomma, oggi si parla del PD “derenzizzato” che uscirà dalla direzione nazionale del partito, ma questo nuovo Partito Democratico non nascerà nei prossimi giorni, perché ci ha già accompagnati per tutta la campagna elettorale.

Durante questi ultimi mesi il PD ha continuato a presentarsi come unico partito-argine a destre e populismi (parola usata e abusata in ambienti vicino al centrosinistra già in occasione della campagna referendaria), ma di questo partito Renzi è sembrato non più il leader assoluto, ma un primus inter pares.

Le apparizioni televisive hanno visto protagonisti moltissimi esponenti minori del PD appunto per incentrare il confronto sui temi e sui programmi e non sulle persone, forse perché nel PD già si avvertiva che la campagna elettorale degli avversari – in particolare nel caso di Movimento Cinque Stelle e di quella parte di Liberi e Uguali formata da fuoriusciti dal PD – avrebbe invece avuto come bersaglio non tanto le politiche governative degli ultimi anni quanto Renzi stesso.

Ma la spersonalizzazione del confronto si è rivelata tanto fallimentare quanto la personalizzazione adottata solo un anno prima in occasione del referendum, e ora la principale forza di centrosinistra si trova come da tradizione ad affrontare un’analisi della sconfitta che difficilmente potrà prescindere da una messa in discussione del leader dimissionario: è stato Renzi ad affondare il PD o è stato solo il condottiero senza colpe di una nave dal destino già compromesso?

Davide Saracino

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