“È stato un colpo al cuore di questa organizzazione, non mi sorprenderebbe se il suo potere andasse d’ora in poi a diluirsi“: così Monte Alejandro Rubido, funzionario titolare della Comisión Nacional de Seguridad de México, ha commentato, non senza un pizzico di vanagloria, l’arresto di Omar Treviño Morales, boss del temutissimo cartello dei Los Zetas.

Morales è stato arrestato la mattina del 4 marzo nel municipio di San Pedro Garza García, alle porte della città di Monterrey, Nuevo León. Conosciuto anche con lo pseudonimo di Z-42, Morales aveva ereditato il vertice dell’organizzazione criminale più potente del Messico il 15 luglio 2013, data dell’arresto di suo fratello Miguel Ángel Treviño Morales, “el Z-40“. Si tratta di uno degli uomini più ricercati tanto dalla DEA quanto dall’Esercito Messicano. Quattro milioni e mezzo di dollari e 30 milioni di pesos l’ammontare delle taglie sulla sua testa poste rispettivamente dai governi di Stati Uniti e Messico per traffico di cocaina, organizzazione a delinquere e detenzione illegale di armi.

Secondo i funzionari di pubblica sicurezza messicani, non esisterebbe, allo stato attuale, un successore di Omar Treviño Morales nelle gerarchie del cartello. L’interrogativo generale è uno solo: può una delle organizzazioni criminali più feroci degli ultimi anni estinguersi così facilmente?

In Messico c’è chi ha fatto notare che l’arresto del Z-42 è avvenuto senza colpo ferire: non una singola pallottola ha falciato l’alba di San Pedro Garza García. La guerra al narcotraffico, si sa, è una lotta senza schieramenti, in cui la corruzione dilagante che investe politici, funzionari pubblici, forze dell’ordine e imprenditoria dedita al riciclo di denaro sporco rende estremamente labili i confini tra legalità e illegalità.

Quella guadagnata dall’esercito per l’arresto di Morales è, come sempre, una medaglia con due facce ben distinte. La geografia del narcotraffico messicano è estremamente composita e diversificata, intessuta da sistemi di alleanze e contese che mutano nel giro di pochi anni. Il beneficio della caduta di ogni singola pedina è unicamente appannaggio degli altri pezzi di una scacchiera che non include la società civile messicana, bersaglio inerme del fuoco incrociato dei cartelli.

Soltanto una settimana fa, un altro importante arresto aveva scosso le cronache della cosiddetta “guerra dei narcos“: a Morelia, nello stato di Michoacán, Servando Gómez Martínez (alias La Tuta) è stato catturato dall’esercito dopo “mesi di investigazione“, come riportato da un tweet del presidente Enrique Peña Nieto.

La Tuta, conosciuto anche come “el Profe” a causa del suo passato di maestro elementare, è uno dei più temuti capi dei Caballeros Templarios, organizzazione criminale nata da una costola della Familia Michoacana che controlla buona parte del sud-ovest messicano assieme ai Guerreros Unidos, gruppo che ha avuto forte rilevanza mediatica negli ultimi mesi a causa del coinvolgimento nei fatti di Iguala che hanno infiammato il Messico dal 26 settembre scorso.

Quello dei Caballeros Templarios è uno dei cartelli maggiormente in combutta con gli Zetas, i quali, allo stato attuale, detengono il controllo di ben 11 stati federali messicani affacciati sul Golfo del Messico, dalla frontiera nord-orientale fino a Cancún, a testimonianza dell’impatto devastante avuto sulla scena del narcotraffico in poco meno di cinque anni.

È dal 2010, infatti, che gli Zetas sono diventati un’entità criminale autonoma, distaccandosi dal Cartello del Golfo dal quale erano nati come gruppo paramilitare a protezione del boss Osiel Cárdenas Guillén. Il nucleo originario degli Zetas era sorto nel 1999 da disertori dell’esercito messicano affiliati al GAFE (Grupo Aeromóvil de Fuerzas Especiales) un unità speciale addestrata tra Stati Uniti, Europa e Israele per operazioni di controinsorgenza e tattiche sovversive, estremamente all’avanguardia sul piano tecnologico per quanto riguarda armi e dispositivi di telecomunicazione.

Quegli stessi organi dell’esercito che negli anni ’90 avevano represso le rivolte zapatiste in Chiapas si sono, in pochi anni, trasformati in ciò che in alcuni in Messico chiamano “quelli dell’ultima lettera“, nel morigerato timore o nel reverenziale ossequio di non poterne addirittura pronunciare il nome.

Arturo Guzmán Decena, ex-tenente del GAFE conosciuto come Z-1, fu il primo capo degli Zetas, dal 1999 al 2002. In quel momento, prima ancora della rottura col Cartello del Golfo, l’organizzazione era già dedita ad estorsioni, sequestri e traffici illegali di droga, armi ed esseri umani. Dopo la cattura di Osiel Cárdenas Guillén e la conseguente condanna a 25 anni di carcere emessa dal tribunale di Houston nel 2010, Heriberto Lazcano Lazcano divenne il primo boss degli Zetas dopo la scissione. “El Lazca” morì nell’ottobre 2012 in uno scontro a fuoco con la marina messicana nello stato di Coahuila, lasciando le redini del cartello nelle mani del primo dei fratelli Treviño Morales.

Miguel Ángel fu il primo jefe degli Zetas ad avere una formazione da pandillero più che da militare e restò ai vertici fino al 15 luglio 2013, data della sua cattura per mano dalla Marina militare a Nuevo Laredo, Tamaulipas, quartier generale dell’intera organizzazione. La taglia sulla sua testa, al momento del fermo, era di 30 milioni di pesos, esattamente la stessa cifra offerta per l’arresto di suo fratello Omar.

L’incarcerazione dell’ultimo boss degli Zetas solleva ora tanti dubbi quanto interrogativi sul futuro degli equilibri del narcotraffico in Messico. La risonanza degli arresti di personalità di spicco resta evidentemente più mediatica che strategica e fa principalmente gli interessi della faccia tosta che Enrique Peña Nieto prova a salvare nel suo momento di massimo discredito in seguito alla desaparición dei 43 studenti di Ayotzinapa.

La vera guerra al narcotraffico che il Governo (probabilmente uno dei peggiori dai tempi di Carlos Salinas de Gortari) è tenuto a combattere dovrebbe avere come principali target l’epurazione della corruzione tra funzionari pubblici, organi di polizia ed esercito e l’individuazione dei canali attraverso cui l’imprenditoria privata ricicla i proventi dello smercio di tonnellate di cocaina oltreconfine. Fermo restando che a domanda corrisponderà sempre un’offerta.

Cristiano Capuano

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