Sex workers, tra diritti negati e lotta per l'autodeterminazione
Fonte: Wikimedia Commons

Quando si parla di sex workers si fa riferimento ad una vasta categoria, in cui sono comprese tutte le lavoratrici che si occupano di prestazioni sessuali come anche di performance erotiche, sia di persona che online. Negli ultimi anni, infatti, il mondo del web ha contribuito a rivoluzionare il settore del lavoro sessuale, con l’ascesa di piattaforme come Onlyfans o Patreon, in cui è possibile creare contenuti per adulti. Il termine sex work è stato usato per la prima volta negli anni ’70 da Carol Leigh, attivista e autrice nota per essersi battuta per il riconoscimento della prostituzione come un lavoro a tutti gli effetti – e non solamente da demonizzare. Oggi l’attenzione intorno al tema del lavoro sessuale è sempre più alta: solamente negli scorsi giorni, Anora si è aggiudicato il premio Oscar come miglior film. Diretto da Sean Baker, narra di una giovane prostituta di Brooklyn soprannominata Ani (Mikey Madison) che lavora in uno strip club. L’incontro col figlio di un oligarca russo, Vanya Zacharov (Mark Ėjdel’stejn), è destinato a cambiare la sua vita.

Quello di Anora è stato un trionfo sotto più aspetti: oltre ad essersi guadagnato il riconoscimento come miglior film, ha vinto i premi per miglior regia, miglior sceneggiatura originale, miglior montaggio e miglior attrice protagonista (conferito a Mikey Madison per la sua eccezionale interpretazione). Il film punta i riflettori su un mondo che non smette di essere stigmatizzato, con ripercussioni su coloro che vendono le proprie prestazioni sessuali. Nel suo discorso di ringraziamento, Baker ci ha tenuto ad esprimere la sua riconoscenza verso la comunità delle sex workers, le quali hanno avuto un ruolo centrale nella realizzazione del film condividendo le loro storie. L’obiettivo del regista era «rimuovere lo stigma che è stato posto sul lavoro sessuale» e, con la sua pellicola, ha messo in luce ciò che lui stesso ha definito come una carriera da depenalizzare: «Spetta alle sex workers decidere come usare il loro corpo per il loro sostentamento», sono state le sue parole sul palco del Dolby Theatre. Anche Madison ha espresso la sua volontà di «riconoscere e onorare» coloro che svolgono questa attività, sottolineando come molto spesso non ricevano il rispetto che meritano.

Sul sex work, infatti, continuano a pesare gli stereotipi che vedono la commercializzazione della sessualità come un’attività meramente degradante. Nell’immaginario collettivo, a predominare sono le storie di donne costrette a prostituirsi contro la propria volontà, perché vittime di trafficanti o per via delle condizioni di disagio in cui vivono. Come affermato in precedenza, però, quello del sex work è un mondo molto variegato e lo stesso vale per le esperienze delle cosiddette lavoratrici del sesso. È quanto sottolineato dall’educatrice sessuale Giulia Zollino nel libro “Sex work is work”, nel quale spiega come fornire una sola rappresentazione di un gruppo sociale o di un’intera comunità porti ad ingabbiare chi ne fa parte in quell’unica visione. Nel caso del lavoro sessuale, le sex workers sono viste principalmente con uno sguardo di commiserazione e biasimo. Il lavoro sessuale viene condannato dalla società, finendo col rendere invisibili le sex workers, impossibilitate a far valere i propri diritti. Eppure, secondo i dati, solo in Italia le lavoratrici sessuali sono almeno 120 mila. Per le donne che decidono di offrire le loro prestazioni e performance – senza sentirsi oggettivate ma, anzi, vivendo la propria sessualità in libertà – il riconoscimento di tali attività come un vero e proprio lavoro determinerebbe un’importante svolta.

Ciò che chiedono sex workers, attiviste e associazioni, quindi, è il superamento dei pregiudizi che gravano su chi decide di entrare nell’industria del sesso rendendola una professione e compiendo una scelta basata sul consenso (sono esclusi, in tale ottica, lo sfruttamento e la schiavitù sessuali). Per molte donne, dedicarsi al sex work vuol dire affermare la propria indipendenza: si tratta di un’attività che richiede tempo e impegno (come evidenziato da diverse lavoratrici che negoziano coi clienti, organizzano incontri o creano contenuti online) e che merita di essere riconosciuta in quanto tale, abbattendo i tabù intorno alla sessualità e gli stereotipi su coloro che ne fanno un lavoro. Negli anni il femminismo ha avuto un ruolo centrale nella lotta delle sex workers, puntando l’attenzione sulla libertà di scelta quando si tratta del proprio corpo. Tuttavia, anche all’interno del movimento ci sono punti di vista contrastanti. Se da un lato troviamo il femminismo favorevole al sex work, dall’altro vi è una corrente abolizionista che ne promuove la criminalizzazione: in tale ottica il lavoro sessuale è considerato una forma di violenza di stampo maschilista, che incoraggia l’oggetivazione delle donne, e la sua normalizzazione rischia solamente di aumentare lo sfruttamento di queste ultime.

C’è inoltre chi punta l’attenzione sul fatto che l’attivismo pro-sex work sia basato principalmente sulla visione di donne giovani, cisgender e occidentali che godono di più privilegi rispetto a donne migranti, spesso prive di permesso di soggiorno, o donne trans che fanno i conti con discriminazioni quotidiane e vivono in situazioni di marginalità, alle prese con ostacoli economici, sociali e legali e con una maggiore ipersessualizzazione. È innegabile che la condizione delle sex workers – in particolare di chi è più vulnerabile – sia sfavorevole. Le lavoratrici del sesso non possono contare su nessuna protezione sociale o tutela giuridica. Sono più esposte alle violenze, con un’elevata incidenza di femminicidi, di cui tuttavia non si parla abbastanza proprio a causa dell’invisibilità delle vittime. A tutti questi aspetti si aggiunge un dato che spesso viene tralasciato. Uno studio sulla salute mentale delle sex workers a cura di Tara S. Beattie, Boryana Smilenova, Shari Krishnaratne e April Mazzuca del 2020 ha evidenziato come emarginazione, esclusione sociale, situazioni di pericolo (tra cui molestie o aggressioni) e pressioni sociali ed economiche possano influire negativamente a livello psicologico sulle lavoratrici sessuali provocando disturbi quali ansia e depressione.

Secondo le attiviste, il riconoscimento del sex work come lavoro può rappresentare un punto di partenza per garantire una tutela a coloro che vendono le proprie prestazioni sessuali. Combattere lo stigma e i pregiudizi sul settore è fondamentale per assicurare alle lavoratrici del sesso la possibilità di svolgere le proprie attività senza essere additate e, di conseguenza, condannate all’invisibilità e all’emarginazione correndo maggiori rischi. Una depenalizzazione del lavoro sessuale permetterebbe di creare un ambiente più sicuro, sia per chi decide di dedicarsi ad esso che per le vittime di tratta: la regolamentazione del sex work, infatti, deve porsi anche l’obiettivo di contrastare il traffico. Tra i modelli più riusciti di riconoscimento del lavoro sessuale, spicca l’esempio della Nuova Zelanda, in cui il sex work è stato decriminalizzato nel 2003. Qui, una volta compiuti i 18 anni, i cittadini e le cittadine che intendono entrare nell’industria del sesso possono prendere questa decisione legalmente.

Il modello – approvato grazie all’impegno dell’associazione nazionale New Zealand Prostitute Collective – prevede che i sex workers vengano riconosciuti come lavoratori e tutelati in quanto tali, con agevolazioni per la loro professione e la possibilità di organizzare piccole cooperative. Allo stesso tempo, sono previsti fondi per chi intende lasciare il lavoro. La decriminalizzazione del sex work in Nuova Zelanda ha avuto un esito favorevole per quanto riguarda la protezione di chi vende prestazioni sessuali, che può accedere ai servizi e lavorare senza la preoccupazione di essere arrestato. Di conseguenza, anche le richieste di aiuto alle forze dell’ordine nei casi di abusi sono aumentate. I sex workers possono affidarsi ad associazioni ed organizzazioni che, oltre ad offrire un sostegno per coloro che ne hanno bisogno, sono impegnate nella sensibilizzazione in merito alla salute e alla prevenzione. L’unico punto debole è dato dalla scarsa inclusione dei sex workers migranti: chi non è in possesso di un documento valido, infatti, continua ad essere criminalizzato e a vedersi precludere la possibilità di godere di diritti e tutele.

Cindy Delfini

Cindy Delfini
Classe '97, Milano. Studio scienze Politiche, Economiche e Sociali, con un forte interesse verso i diritti civili. Sono appassionata di arte nelle sue diverse forme di espressione: musica, danza, cinema, serie TV, letteratura.

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