Quando si tratta di corpi e in particolare dei corpi delle donne i commenti (non richiesti) su cosa dovremmo fare e non ci arrivano ogni secondo. Nell’ultimo periodo si è alzato un polverone sui social sulla questione: peli, si o no? Orde di richiami a chi decide di non vivere con una lametta in mano e scrosci di applausi per chi invece lo fa, dimenticando che ognuno del proprio corpo fa ciò che vuole. Inoltre, dai vertici politici è arrivata la notizia di un DDL che andrà a colpire duramente le sex worker. Giulia Zollino, educatrice sessuale, antropologa e autrice del libro “Sex work is work” ha risposto ad alcune domande su questi due temi.
Com’è stato il tuo rapporto con i peli?
Giulia Zollino: «Diciamo che per tanto tempo sono stati qualcosa da togliere, che odiavo. Non mi ponevo neanche la questione “Li lascio? Come li lascio?”, era una questione “questa cosa non mi rende femminile, tutte se li tolgono e lo faccio anche io”. La prima volta che mi sono depilata me la ricordo molto bene perché fu una mia amica che mi passò il silk epil su tutto il corpo. Un dolore atroce. Ero in prima superiore, mi trovavo abbastanza in là con l’età rispetto ad adesso che già alle medie si tolgono i peli. Qualcosa è cambiato quando ho incontrato il femminismo quando mi sono trasferita in un’altra città, Bologna, dove ho iniziato l’università e ho iniziato a frequentare un po’ l’ambiente femminista. Lì ho iniziato a capire che quella che consideravo una pratica normale, naturale in quanto donna in realtà era un meccanismo di sottomissione e faceva parte di quelle pratiche che mettiamo in atto per disciplinare il nostro corpo, per renderlo più standard. Ho quindi iniziato a far crescere i peli sotto le ascelle, sulle gambe, però mi sentivo un po’ a disagio, non avevo persone che conoscevo che avevano i peli, quindi mi sentivo anche un po’ l’unica a lasciarsi libera. Il rapporto con i peli è cambiato radicalmente con la pandemia. ormai due anni fa, eravamo a casa e mi sono detto “facciamo una prova”. Ho messo quindi in atto una serie di cambiamenti per il mio corpo. Quando ho letto il libro “Contropelo” di Bel Olid, prima in spagnolo, ho acquisito una serie di strumenti di lettura più per accettare questo cambiamento che è stato comunque difficile, tutt’ora è difficile mostrarlo in alcuni contesti come le palestre. Adesso li vivo come qualcosa di cui non ho vergogna, non mi interessa più toglierli».
Pensi che il rapporto che abbiamo con i peli possa complicare l’approccio con l’altro?
G: «Sicuramente ti fa sentire, almeno all’inizio, più vulnerabile e meno sicura di te quindi tendi a nasconderli, come si fa anche con alcune parti del corpo che non ci piacciono. Soprattutto nel sesso, infatti tantissime volte mi è capitato, come anche a persone che conosco, di non avere rapporti sessuali perché non depilate. Chi sceglie di tenere i peli per un periodo o per tutta la vita si trova sicuramente a dover affrontare una difficoltà maggiore nel momento i cui deve approcciare qualcuno, anche a livello sessuale all’inizio. Quando poi diventa una parte di te e sei convinta delle motivazioni per cui lo fai e sei completamente a tuo agio, poi questa cosa passa anche alle altre persone. Per quanto mi riguarda, se una persona mi fa delle battute pelofobiche diciamo, io non ci voglio avere niente a che fare».
Perché il non depilarsi viene definita, anche dal movimento femminista, una lotta senza un fondamento?
G: «Personalmente, non ho mai sentito questo tipo di discorso nel movimento femminista. Ho sentito il discorso, che sposo anche io, del “continuo ad essere femminista anche se mi depilo”. Non penso di essere più femminista se ho i peli o se non intervengo chirurgicamente sul mio corpo. Non penso ci sia la vera femminista. Secondo me la cosa più importante è avere consapevolezza di ciò che facciamo dei nostri corpi e non soltanto perché lo facciamo noi, ma cercare di capire che è qualcosa di molto più grande: non esiste soltanto “ok lo faccio perché voglio”, perché in questo momento scegli di farlo? È una scelta? Bisogna riflettere e capire che è una pratica culturale che abbiamo naturalizzato e che ci fa riflettere sulle norme estetiche, le disparità di genere, sul mito della bellezza. Quindi, ignorare tutta questa parte qua dicendo “io mi piaccio così” è un po’ riduttivo».
Dal tuo punto di vista, saremo in grado di modificare questo ideale estetico?
G: «Gli ideali estetici cambiano, si evolvono. I peli sono diventati un problema abbastanza recentemente. Adesso vedo già più rappresentazione di donne con i peli, anche influencer. Ho la sensazione ogni tanto che sia diventata una moda avere i peli. Sicuramente cambierà, non so fino a che punto, non so se sostituirà l’ideale di donna glabra. Mi auspico ci sarà più varietà, vorrei proprio ci fosse una pluralità di rappresentazione di corpi».
Cos’è il sex work? Quanto è radicato in Italia?
G: «Quando si parla di sex work si pensa sempre e solo al lavoro di strada. In realtà con la parola sex work intendiamo tutta una serie di lavori che si possono fare anche solo con il corpo, non soltanto che prevedono lo scambio economico con una prestazione di tipo sessuale, e dall’altra c’è la situazione economica che può avvenire con dei doni o con i soldi. Rientrano nel sex work il porno, Only Fans, chi incontra clienti, chi lavora per strada, chi fa le cam online. Ci sono tanti modi di fare sex work ed è più comune di quanto si pensi. Si è diversificato tanto, per esempio Only Fans è scoppiato durante la pandemia. Sembra essere una realtà lontana quando in realtà anche la tua vicina di casa o la tua amica potrebbe essere una sex worker».
È stato presentato al Senato il 21 febbraio scorso il Disegno di legge n°2537 che prende il nome dalla senatrice del Movimento 5 Stelle Alessandra Maiorino. Questo DDL cerca di portare in Italia il cosiddetto “Modello nordico”: trattasi di un modello abolizionista con il principio di voler eliminare la tratta umana e la prostituzione senza però garantire alle sex worker diritti e tutele sul lavoro. L’iter non è ancora iniziato al Senato.
Cosa pensi del DDL Maiorino?
G: «Penso sia una rappresentazione della sessuofobia che abbiamo in Italia, della difficoltà che abbiamo di parlare di sesso, della difficoltà di aver a che fare con il sesso e affrontare questo tema con competenza. Penso sia un DDL pensato senza aver la benché minima idea di cosa sia il sex work. Soltanto leggendo il testo o ascoltando delle interviste rilasciate anche dalla senatrice Maiorino sono davvero imbarazzanti, capisci che non hanno letto libri sull’argomento e che non hanno parlato con delle sex worker. Trovo abbastanza inquietante proporre una legge su un argomento che non si conosce abbastanza e per cui si hanno anche dei giudizi morali molto forti. Quello che propongono è un modello nordico che è stato introdotto per la prima volta in Svezia nel 1999 ed è un modello molto pericoloso per le sex worker: criminalizza i clienti e di conseguenza criminalizza chi vende i servizi, perché quando vai ad agire a criminalizzare la domanda anche l’offerta in qualche modo è implicata. Porta quindi a maggiore violenza, negoziazione, maggiore sfiducia nelle istituzioni quindi se magari subisci una violenza non hai fiducia nel chiedere aiuto alle istituzioni. È quindi un modello molto pericoloso che però molti paesi hanno adottato, per esempio la Francia l’ha adottato nel 2017 e anche l’Italia ha preso questa direzione. Questo modello nordico, un po’ come la nostra legge Merlin, prende in considerazione solo un certo tipo di lavoro sessuale, ma adesso non è più così. Cosa succede alle persone che lavorano online? Anche loro possono essere sfruttate, non è una cosa che accade solo off line».
Ritieni che la società riuscirà ad eliminare il suo pregiudizio sul sex work?
G: «Riuscirà ad eliminarlo quando eliminerà il pregiudizio sul sesso. Quando renderemo l’educazione sessuale obbligatoria a scuola. Perché parte tutto da lì. Quando le persone sono educate sul tema della sessualità riescono a sviluppare delle competenze per analizzare, comprendere, non giudicare un fenomeno come il lavoro sessuale. Se non parliamo di sessualità, se ancora ci spaventiamo a chiamare le cose con il proprio nome, lo trovo veramente improbabile avere un approccio non giudicante nei confronti del sex work».
Gaia Russo