Shen Gun, leggendario guaritore e imperatore della Cina, descriveva la cannabis come medicina capace di curare «disordini femminili, gotta, reumatismo, malaria, stipsi e debolezza mentale». Era il 2737 a.C. e, in Cina, come in molte altre zone del mondo, la cannabis era usata per scopi terapeutici.

Oggi, dopo oltre quattro mila anni, la cannabis è la sostanza illecita più diffusa in Europa e il dibattito politico e scientifico sui suoi possibili effetti benefici è ancora confuso e discordante.

Quando nel 1937 iniziò la lotta alla droga, il proibizionismo travolse la cannabis e i suoi derivati. Nonostante la sua scarsa diffusione in Italia, con Mussolini l’hashish divenne «nemico della razza» e «droga dei negri». Dalle leggi fasciste alla più recente Fini-Giovanardi (poi bocciata dalla Corte Costituzionale), in nome della salute pubblica, la repressione e la censura delle droghe leggere hanno rappresentato una costante dello Stato, insieme allo scontro tra i proibizionisti e chi vorrebbe reintrodurne la legalità.

Ma, si sa, «la legge di per sé non è protezione».

Secondo le statistiche, infatti, un italiano su cinque tra i 15 e i 34 anni fa uso abituale di cannabis, mentre il 31,9% della popolazione adulta e il 27% degli studenti tra i 15 e i 16 anni l’ha provata almeno una volta nella vita. Il vero cuore della questione è ancora quello della salute, e lo scontro, quasi paradossale, tra “tutela” della salute pubblica – minacciata dall’abuso della sostanza – e il rispetto di un diritto fondamentale dell’individuo, della sua salute fisica e mentale. È questo il caso di chi ricorre alle proprietà della cannabis per evitare sofferenze e dolori fisici spesso insopportabili.

Poi c’è la questione della criminalità organizzata, di chi detiene illegalmente la gestione della sostanza e persegue la logica della rendita a scapito dello Stato e anche – sì, in questo caso, sì – della salute pubblica. Ecco perché una riflessione sulla legalizzazione della cannabis riguarda pienamente le persone e i diritti civili.

In Italia, dal 1994, l’utilizzo terapeutico della cannabis dipende dalla responsabilità del medico, che può decidere di prescriverla per ogni patologia per la quale esistano studi scientifici pubblicati su riviste accreditate.

Decreti legge successivi hanno aggiornato l’elenco di queste malattie, tra cui la sclerosi multipla, lesioni al midollo spinale, Parkinson, Alzheimer, emicrania, glaucoma, anoressia e molte altre patologie resistenti alle terapie tradizionali. Molte altre, però, sono ancora rimaste fuori da questa lista.

E, infatti, come ribadiscono da anni gli operatori del diritto e chi ogni giorno sopporta il disagio della malattia, questa legge non basta: non solo perché – nonostante il progetto pilota dello Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze  i farmaci a base di cannabinoidi scarseggiano su tutto il territorio nazionale, ma anche per la difficoltà di trovare un medico informato a riguardo, e soprattutto disposto a ricorrere a questo trattamento. Così, nonostante la parvenza di un diritto, centinaia di malati per curarsi sono costretti a ricorrere all’illegalità, rischiando conseguenze penali e alimentando la criminalità organizzata.

La speranza di un nuovo cambiamento il 2017 l’ha portata e soffocata: lo scioglimento delle Camere ha sancito il naufragio definitivo del timido DDL sull’uso terapeutico della cannabis che, così, non passerà mai al Senato. A dire il vero, la legge originaria mirava alla micro-liberalizzazione: limite massimo di acquisto di cinque grammi per uso personale, possibilità di coltivare la cannabis in forma individuale e monopolio di Stato.

A causa dell’ostilità del Ministero della Salute, però, al disegno iniziale era sopravvissuta solo una sbiadita discussione sul suo uso terapeutico, anch’esso osteggiato dalla destra – Fratelli d’Italia e Forza Italia in primis – che invocava cautela per evitare l’avvallamento della «intossicazione dei giovani per via ordinamentale».

Paure ingiustificate anche per l’Organizzazione Mondiale della Sanità che, alla fine del 2017, ha deciso di tenere fuori il cannabinoide non psicoattivo (CBD) dalle tabelle internazionali dei farmaci psicotropi e pericolosi per la salute.

Per l’Associazione Luca Coscioni, l’incertezza attuale su valori e i disvalori della cannabis dovrebbe essere superata da maggiori approfondimenti: l’unico modo per promuovere veramente la cannabis terapeutica in Italia è «investire in ricerca scientifica e trial clinici, partendo da studi e sperimentazioni sulla cannabis prodotta dallo stabilimento farmaceutico militare di Firenze e, per andare incontro alle esigenze dei malati, occorre che il governo conceda la licenza anche ad altri soggetti produttori per aumentare significativamente la produzione».

Per il momento, però, nulla di fatto sul fronte cannabis.

Bisogna accontentarsi del decreto fiscale approvato dalla camera il 30 novembre per finanziare con 2,3 milioni di euro lo Stabilimento di Firenze, al fine di incrementare la produzione di cannabis ad uso terapeutico e aumentarne la reperibilità. Un piccolo passo avanti, quindi, ma che è già indietro.

La battaglia politica per garantire alle persone malate un libero accesso alle cure è una battaglia di civiltà. Al di là delle dinamiche di consenso e dei preconcetti ideologici ci sono migliaia di malati costretti a scegliere tra la sopportazione del dolore e il rischio di procurarsi la sostanza illegalmente e di consumarla senza poterne accertare il grado di qualità.

Per questo, superare i regionalismi e permettere ai pazienti di ricevere equamente i farmaci, a carico del servizio sanitario nazionale, deve essere una priorità per qualsiasi futuro governo. Per quanto riguarda la liberalizzazione, invece, in Italia bisogna accontentarsi dei piccoli passi e per il momento la speranza è rimandata a tempo indeterminato.

Rosa Uliassi

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