Il rapporto annuale 2016-2017 di Amnesty International denuncia la demonizzazione dell’altro, del diverso da sé, e la conseguente diffusione in tutto il mondo di fenomeni discriminatori e xenofobi. Per approfondire e comprendere la situazione italiana, abbiamo intervistato Antonio Marchesi, Presidente di Amnesty International Italia.

Presidente, nella relazione relativa al rapporto annuale di Amnesty International, accenna a una convocazione da parte del Ministero dell’Interno, occasione in cui discutere delle misure attuate o da attuare sull’immigrazione. Quali aspetti preoccupano di più Amnesty e quali misure dovrebbe adottare il Governo per tutelare i diritti umani?

«Guardi, stiamo sollecitando da tanto tempo la possibilità di incontrare il Ministero dell’Interno, quindi il fatto che l’incontro avrà luogo è già di per sé un buon risultato. Noi cerchiamo dialogo, non certo conflitto. L’ultimo risultato della ricerca di Amnesty International sui migranti in Italia è il rapporto sugli hotspot, quindi si parlerà di quello e di una serie di misure, come il decreto Minniti entrato in vigore solo in febbraio, che sono successive alla pubblicazione del rapporto hotspot.»

Quali problematiche affronta il rapporto cui ha accennato?

«Per quanto riguarda gli hotspot, l’idea non è italiana, ma europea. L’impostazione hotspot è stata pensata a livello europeo per facilitare innanzitutto la selezione delle persone sulla base dell’idoneità o meno a ricevere protezione internazionale, asilo, e il loro più efficace smistamento tra i paesi membri dell’Unione. Da questo punto di vista è stato fallimentare, perché è un approccio che ha rafforzato effettivamente la parte di screening, la parte di trattenimento delle persone, quindi un approccio molto poco favorevole alla concessione della protezione internazionale. La parte di ricollocazione, che avrebbe dovuto permettere di mandare un numero significativo di persone in altri paesi europei, non c’è stata – si è parlato di decine di migliaia di persone, a un certo punto la Commissione aveva ottenuto dai governi che fossero quarantamila, invece dall’Italia, dagli hotspot, sono partite pochissime persone, poco più di mille: non ha funzionato il sistema. Poi, al di là del sistema, in Italia è stata applicata una “pre-identificazione”, che costringe la persona appena scesa da un barcone in condizioni psico-fisiche terribili a riempire un questionario, che magari non è facile da comprendere e non è neanche molto ben formulato, dalle cui risposte dipende il proprio futuro. C’è inoltre tutta una serie di elementi di questo approccio che tende a non facilitare la concessione di protezione internazionale a chi pure ne avrebbe diritto.»

Riguardo al decreto Minniti?

«L’aspetto che più preoccupa, ma poi si discuterà più approfonditamente nel merito, riguarda il riesame dei dinieghi di asilo da parte della Commissione territoriale, come funziona attualmente. Verranno riesaminati, potranno essere riesaminati, ma verrà riesaminata soltanto la videoregistrazione della prima parte del procedimento, senza contraddittorio. Insomma, si nega un vero diritto d’appello in un paese in cui il diritto d’appello è previsto per cultura giuridica anche per cause di pochissima importanza, qui invece sono vicende che riguardano la vita delle persone. Questi, quindi, saranno più o meno i temi che su cui si verterà l’incontro. Amnesty International ha sempre a cuore il diritto a una procedura effettiva di valutazione delle domande di protezione e il non rimpatrio nell’attesa che questa procedura si completi.»

In riferimento alla demonizzazione dell’altro, quante possibilità vi sono che in Italia possa affermarsi come forza politica di maggioranza un partito che fa del “noi contro loro” un punto cardine del programma?

«Questo forse bisognerebbe chiederlo a chi fa i sondaggi negli istituti demoscopici! Io non lo posso dire, mi auguro di no, ma non so quando ci saranno le elezioni e che risultati daranno. In effetti, una delle differenze rispetto ad alcuni altri paesi è che in Italia queste forze politiche non sono al potere. In Ungheria, Orbán che ripete quotidianamente questo discorso del “noi contro loro” è al potere, e così pure Trump, Duterte nelle Filippine, Erdoğan in Turchia. In Italia no. Però preoccupa, preoccupa evidentemente quando dei leader politici dicono delle cose che rappresentano quasi un via libera. C’è il rischio che si rendano più accettabili atteggiamenti che fino a questo momento venivano considerati del tutto inaccettabili, quindi che si sdoganino atteggiamenti di discriminazione, addirittura di odio nei confronti dell’altro. I fatti concreti spesso sono preceduti dalle parole, e quando le parole seminano questo tipo di veleno, noi proviamo a rispondere il più presto possibile.»

Paura e indigenza si sono dimostrati terreni fertili per coltivare la convinzione secondo cui è giusto rinunciare a dei diritti e a delle libertà per ottenere una sicurezza fisica ed economica. Amnesty International come si pone a riguardo?

«È un grosso equivoco contrapporre diritti umani e sicurezza, ed è quello che fanno alcuni governi dall’inizio del millennio, in realtà. Noi riteniamo esattamente il contrario: più diritti umani e più sicurezza. Insomma, non è chiaro in che modo rinunciare a diritti di libertà, di integrità personale e così via possa portare più sicurezza alle persone, soprattutto quando nel nome della sicurezza o più precisamente della lotta al terrorismo si colpisce nel mucchio e si antagonizzano delle fasce di popolazione. Quelle fasce di popolazione diventano terreno fertile per il reclutamento da parte di forze antagoniste, se non proprio di gruppi terroristici, quindi l’idea che ci possa essere più repressione e più pace sociale, meno diritti e più sicurezza, è sbagliata. Poi non è equo, semplicemente non è giusto: trattare alla stregua di pericolo per la società o addirittura di terroristi persone che dal terrorismo stanno fuggendo e che chiedono protezione non è accettabile, non dal punto di vista dei diritti di queste persone. I diritti umani sono diritti di tutti.»

Si ripete spesso che le risorse sono insufficienti per fronteggiare l’emergenza di migranti e rifugiati. Ciò vale per l’Italia e per l’Europa. Esistono dati che possano ribattere a questa affermazione?

«Sì. Innanzitutto, anche se dal punto di vista morale andare in un altro paese per motivi economici è assolutamente accettabile o addirittura condivisibile, è diverso dall’andarci per fuggire dalla persecuzione o dalle bombe di un conflitto armato. Quindi bisogna distinguere tra migranti e rifugiati: la posizione giuridica è diversa. In ogni caso, anche se dovessimo considerare l’una e l’altra categoria, i numeri degli arrivi in Europa non sono dei numeri che il continente più ricco del mondo non potrebbe gestire. Stiamo parlando di centinaia di migliaia di persone in un continente che ha oltre cinquecento milioni di abitanti. La fuga dalla guerra in Siria ha portato oltre ottocentomila persone in Libano, che è un paese che ha pochi milioni di abitanti, è grande come una piccola regione italiana, e lì forse la sindrome dell’invasione è più giustificata. Ma al di là del conflitto siriano, che è la causa principale degli arrivi da qualche tempo, il fenomeno dei rifugiati riguarda in misura di gran lunga prevalente i paesi confinanti con quelli da cui queste persone fuggono: oltre l’80% dei rifugiati si trova in paesi del terzo mondo, non arrivano in Europa. Quindi, dal punto di vista dei numeri, non esiste questa emergenza spaventosa. Tra l’altro, trattare la questione come un’emergenza è anche discutibile, perché significa che si fanno politiche di emergenza di fronte a un problema che con ogni probabilità è destinato a rimanere – è un problema strutturale e va affrontato in una maniera diversa.»

Dunque, una problematica importante risiede proprio nell’affrontare il problema in maniera sempre temporanea e parziale.

«Temporanea, emergenziale, senza condivisione tra Stati europei, con un obiettivo che è quello del contenimento e non di una buona politica che gestisca le migrazioni. I migranti economici arrivano in Italia, delle volte, perché un mercato del lavoro c’è: le persone non vanno dove non trovano mezzi di sopravvivenza. Solo che quel mercato del lavoro è un mercato per i clandestini, nel senso che i datori di lavoro italiani scelgono i clandestini perché questi non hanno diritti, non possono rivolgersi alle autorità se non vengono pagati, non possono accampare diritti per un alloggio dignitoso. C’è uno sfruttamento dei migranti irregolari che porta a far sì che rimangano tali, che è nell’interesse di organizzazioni criminali. Quindi, creare dei canali legali e sicuri per le migrazioni anche economiche sarebbe logico anche dal punto di vista delle autorità italiane.»

Badando per un istante a una questione differente, nel rapporto da cui siamo partiti, con riferimento all’Italia, si parla anche del disegno di legge sul reato di tortura, riguardo al quale Amnesty International suggerisce una modifica.

«Sì, perché il testo che ha davanti a sé il Senato è un testo brutto, un testo che dà una definizione di tortura estremamente difficile da applicare, molto restrittiva, che non è conforme alla Convenzione delle Nazioni Unite. E comunque sia, è un testo diverso da quello approvato dalla Camera, quindi qualora il Senato lo approvasse ci sarebbe un ulteriore passaggio parlamentare con tempi molto stretti e molte incertezze. Noi, di fronte a questa situazione oggettivamente complicata, abbiamo chiesto al Governo e in particolare al ministro Orlando di prendere un’iniziativa forte, che se c’è la volontà politica si può fare: fare un emendamento che riporti la definizione nei termini della Convenzione ONU contro la tortura e impegnarsi perché sia rapidamente approvato da entrambi i rami del Parlamento. Se questo non è realistico, di ritornare al disegno di legge della Camera, perché lì è stato già approvato e basterebbe che il Senato lo accettasse per avere finalmente una legge, magari non perfetta ma comunque migliore di quella in discussione al Senato.»

In Italia, vi sono realtà politiche che identificano in immigrati e rifugiati il nemico, ciò nonostante il nostro Stato vieti rigurgiti razziali. A suo avviso, Amnesty International potrebbe sollecitare l’applicazione dei provvedimenti previsti?

«Su ciò che è rilevante penalmente, ciò che possiamo fare è chiedere che la Magistratura applichi le leggi esistenti. Tra queste ci sono le aggravanti, che non riguardano il discorso d’odio ma riguardano le aggressioni, i reati contro la persona per motivi razziali, le aggravanti previste dalla legge Mancino, e ci risulta che siano applicate pochissimo. Per quanto riguarda l’aggravante di omofobia, non è proprio prevista dalla legge, e nonostante i vari tentativi per ora sembra che non ci sia la possibilità di introdurre questa aggravante specifica. Quella per motivi di razzismo esiste, è prevista dalla legge, però ci risulta che venga applicata pochissimo. Quindi c’è un problema di norme da cambiare, c’è un problema di norme da applicare e poi c’è un problema politico-culturale enorme che evidentemente deve essere affrontato, perché certe dichiarazioni sono davvero irresponsabili.»

Intervista a cura di Rosa Ciglio

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