Oh be’, insomma, Lightning Bolt ha fatto crack. Il fulmine, un concentrato di energia pura, indisciplinato e teatrale, dolorosamente una sentenza. Che se ci pensi, e chiedi anche a un bambino di disegnarti un fulmine, ti tirerà la matita sulla carta a zig zag. Una specie di crepa nel bianco A4, lo stesso crack che tutto il mondo ha visto nell’ultima volata della sua carriera e che ha messo in ginocchio l’uomo più veloce del mondo.

Usain Bolt, di Trelawny (Giamaica) – 31 anni il 21 agosto – aveva già detto basta un anno fa. Dopo Rio, i mondiali di Londra e poi basta, perché “più si invecchia più ci si deve sacrificare e personalmente non credo di avere la disciplina necessaria” – ammise a Sky Sports – “so quando è il momento di smettere”.

Si sollevano i dubbi del caso, perché un mostro sacro dello sport moderno non può fare cilecca. Che Bolt giungesse a questi mondiali non al top della forma sono fatti e non supposizioni, quando a fine giugno diceva di dover farsi visitare, di poter recuperare la giusta forma fisica con la quale si affronta un mondiale. A Ostrava, poco prima, vinceva i 100m in 10″03, a soli 3/100 dal cubano Perez, a cui vogliamo un gran bene. Vincere, e soprattutto come vincere, star bene con se stessi, soprattutto perché Justin Gatlin – pur se a 35 anni – non lo ricordiamo un tipo tranquillo che corre tanto per.

Usain Bolt ha smesso di farci ridere, sorprendere e zittire. Dopo Londra si ferma e probabilmente penserà ad altro, che naturalmente sappia ancora di sport. A Londra Bolt è caduto in terra e nella staffetta 4x100m ha abdicato. Un forte crampo e l’epilogo di un copione che neanche il suo peggior nemico gli avrebbe mai augurato. E quali nemici. Rispetto e basta, anche per chi ha la spregiudicatezza di dire che lascerà “senza eredi”. Rispetto e basta, quando pure Gatlin – che nei 100m ha vinto – lo ha omaggiato in diretta televisiva, perché nessuno attualmente scommetterebbe che si possa correre più veloce di quanto ha fatto lui.

Non ha chiuso come voleva, non c’è niente di più ovvio da dire. E ha promesso che tornerà a farsi vedere, a salutare chi un biglietto per questi mondiali se lo era stipato quasi solo per stupirsi ancora una volta.

Nell’arco temporale di 4 olimpiadi – su 3 delle quali c’è stampata fissa la sua faccia su ogni pista di atletica – di avversari Usain ne ha conosciuti, e di infortuni anche. Sul suo conto si è detto parecchio, soprattutto quando a Pechino nel 2008 chiuse con 9″69 quando un anno prima correva i 100m in almeno 10″. Accuse di doping che l’ego spropositato di un personaggio così ha saputo scrollarsi di dosso, ma soprattutto confutare coi fatti (mai trovato positivo a un controllo).

Uomo e gloria dei record, a poco meno di 16 anni diventava il più giovane campione mondiale juniores di sempre, a Berlino 2009 chiudeva i 100m in 9″58, e un anno prima a Pechino tagliava il traguardo rallentando vistosamente e con una scarpa slacciata; vittorioso anche nella disciplina maestra, i 200m che ha soffiato al grande Michael Johnson.

In questi casi il pensiero che ci accompagna è sempre lo stesso. Un vincente deve conoscere i suoi limiti, sapere davvero quando è il momento di dire basta perché l’ultima corsa non sia quella con cui anche solo una persona ti ricorderà. Ci viene in mente Rosberg (ma non solo), che ha vinto e ha lasciato e di cui abbiamo parlato tempo fa, pur tenendosi dietro i vocioni di chi gli ha dato del codardo, incapace di ripetersi due volte.

Vocioni che non mancano nemmeno all’indomani dell’ingloriosa fine di Usain Bolt, ma che stavolta siamo sicuri si bloccheranno nella gola di tutti. Quando sei molto di più del nome e cognome che ti porti dietro dalla nascita, non solo sai quando è il momento di smettere, ma prima qual è quello di provarci ancora.

Chapeau a chi ci ha divertito e a chi resterà nella storia.

Nicola Puca

Fonte immagine in evidenza: corriere.it

 

 

 

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