Attivista, giornalista, uomo di solidarietà, combattente. Così si definisce Claudio Locatelli, 30 anni, partito per la Siria a febbraio e tornato poche settimane fa, dopo aver combattuto per sette mesi nel battaglione internazionalista dello YPG (Unità di Protezione Popolare), a fianco del popolo curdo, ma anche di altri volontari internazionali scesi in campo contro l’ISIS.

Dalla Palestina alla Grecia, dall’Aquila ad Amatrice, sono tante le iniziative di solidarietà che Claudio ha organizzato attivamente nel corso della sua giovane vita. Per la Siria, però, la decisione più grande: lasciare tutto e, dopo un breve addestramento, imbracciare un fucile e scendere fisicamente nel campo di battaglia contro l’ISIS.

Claudio, come e quando hai maturato la decisione di partire per la Siria?

«La scelta l’ho maturata nel tempo. Già da prima mi occupavo di attivismo e di informazione sui popoli oppressi, in particolare i palestinesi; poi dal 2013 anche i curdi. Nel novembre 2014 ho coordinato un progetto di assistenza alle persone che avevano perso la casa a causa dell’invasione di Kobane da parte di ISIS. Sono stato nel sud della Turchia, dove ho curato un progetto nei campi profughi, sia a livello fisico, sia a livello giornalistico. A quel punto mi son trovato davanti a una Kobane chiusa in un angolo, con pochissime abitazioni rimaste, senza speranza di vittoria davanti alla gigantesca forza dell’ISIS. Tutto questo mi ha fatto capire una serie di cose, fondamentali poi nella scelta di andare nel nord della Siria e arruolarmi nello YPG.»

Claudio Locatelli Isis Siria

Qual è stato il tuo ruolo effettivo nel battaglione internazionalista?

«In entrambe le campagne militari a cui ho partecipato combattevo con un kalashnikov. Oltre a questo, cercavo di raccogliere quante più informazioni possibili per comunicare la realtà che stavo vivendo, anche se il mio compito principale era combattere fisicamente sul territorio. In più, nella campagna di Tabqa mi occupavo di navigazione, ovvero di riuscire a guidare il battaglione con il GPS al punto di arrivo in modo funzionale, in supremazia rispetto ai miliziani dell’ISIS o almeno in sicurezza. A Raqqa ho continuato queste operazioni, soprattutto notturne, mentre fuori dalla battaglia ero responsabile del training fisico del battaglione, di prepararlo e mantenerlo per il campo di battaglia. Sempre a Raqqa, poi, prima degli scontri dovevo assicurarmi che la nostra apparecchiatura tecnologica funzionasse correttamente.»

Riguardo alla liberazione di Raqqa, quali sono attualmente le condizioni dei civili sopravvissuti?

«Ricordiamo che Raqqa è stata il centro del califfato nero, quindi è giusto sottolineare che non c’erano solo scudi umani, ma c’era anche un forte consenso popolare, dovuto al disagio di quella città. Togliendo questo, erano molti i civili che non ne potevano più della quotidianità imposta da ISIS e che hanno realizzato quello che stava accadendo. A Tabqa l’impatto è stato molto più emozionale: quando siamo arrivati la gente è venuta ad abbracciarci. C’è stato un forte scontro tra la violenza della guerra e gli occhi illuminati di persone stanche, corrugate, ma felici. Riporto un dato attuale e molto bello: quando abbiamo liberato la città c’erano ancora 11 mila persone all’interno. Adesso, sono 120 mila e la città è tornata a esistere.»

Claudio Locatelli Isis Siria

Una delle immagini che più colpisce delle Forze Democratiche Siriane è quella delle combattenti delle unità femminili. Hai avuto modo di conoscere direttamente alcune di loro?

«Abbiamo combattuto insieme a Tabqa, mentre a Raqqa no, anche se la base davanti alla nostra, da cui partivano le operazioni, era di donne dello YJŞ, le unità femminili Yazide. I battaglioni di donne hanno un rilievo che normalmente in Medio Oriente non c’è. L’avere dei generali donna a capo dello sforzo bellico di liberazione, supera perfino la concezione europea.»

Non a caso, tra i punti del Confederalismo Democratico (il progetto politico-sociale sviluppato dal leader curdo Abdullah Öcalan ndr), c’è quello del co-presidenzialismo…

«Sì, nelle varie unità della società civile si sta creando il co-presidenzialismo, in cui ci sono un uomo e una donna in ogni ruolo sociale. Personalmente non credo che una quota rosa di potere sia il punto di arrivo, ma certamente è un transito geniale e fondamentale. Perché per una volta interi battaglioni femminili hanno avuto totale dignità, potere, diritto e forza nella resistenza armata di tutti.»

Quindi, non si tratta di una parità di genere solo teorica, ma concretizzata nella società civile…

«Nella guerriglia questo livello è più evoluto perché si è creato un avanzamento mentale maggiore. Considera che ogni battaglione fa formazione di pensiero, quindi ragionano sul perché è importante combattere con le donne. Nelle Forze Democratiche Siriane, i motivi che spingono a combattere sono molto importanti. Ogni giorno fanno formazione su queste cose e quindi sono molto avanti. Nella società civile è un processo più lento, ma comunque esiste.»

Come pensi che si evolverà la situazione in quei territori quando il problema ISIS sarà debellato o comunque isolato?

«Ormai nelle Forze Democratiche Siriane sono riuniti tanti popoli, in una confederazione che include non solo curdi. Questa realtà è molto fragile perché è bersagliata da tutti. Primo perché porta un modello innovativo, multiculturale e oltre i confini, fondato sull’idea che tutti possano partecipare, indipendentemente dalla loro origine religiosa o etnica. Gli Stati Uniti supportano quest’area con l’aviazione, ma il rischio è che prima poi possano allontanarsi completamente dal conflitto. Il secondo rischio è che il regime di Assad in Siria, supportato dalla Russia, voglia invadere la zona ora controllata dallo YPG. Un altro rischio, quello più grosso, viene dalla Turchia, che identifica come terroristi tutti coloro che hanno combattuto al fianco dei curdi.»

Quali sono i tuoi progetti ora che sei tornato? Hai intenzione di tornare in Siria e, in caso di necessità, scendere nuovamente in battaglia?

«Non posso escludere che possa esserci necessità di combattere nuovamente e di scegliere ancora la via della battaglia su campo. Per ora, però, la mia battaglia continuerà con la comunicazione e con l’educazione. Il mio compito è quello di portare avanti i valori dello YPG e della sua causa, ma anche quelli più generali della lotta contro l’oppressione, in qualsiasi forma essa si presenti, che in questo caso è quella del terrorismo internazionale e del conservatorismo religioso.»

Intervista a cura di Rosa Uliassi

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