La passione per la formaldeide di Damien Hirst

Quando nel 1991 il ventiseienne Damien Hirst presentò al mondo “L’impossibilità fisica della morte nella mente di un vivente”, ovvero uno squalo in formalina in una teca di vetro e acciaio, lo shock portò a reazioni entusiastiche e critiche feroci, come la risposta degli stuckisti che replicarono con “A Dead Shark isn’t Art”.

In seguito, Hirst, novello Norman Bates, esplorò ulteriori possibilità della tassidermia con l’opera “Mother And Child Divided” .

Probabilmente la fascinazione di Hirst per la morte era nata con la sua frequentazione dell’obitorio dove venne scattata questa foto. Questo scatto risale all’adolescenza di Hirst, quando l’artista stava facendo disegno anatomico. Lo ritrae sorridente ad occhi chiusi, vicino a una testa recisa dal corpo di un cadavere. Come ha dichiarato nel 1992, quando riutilizzò un ingrandimento della fotografia:

«Sono io con una testa morta. Una testa staccata. All’obitorio. Testa umana. Ho sedici anni… se guardi la mia faccia sto dicendo “Veloce. Veloce. Fai la foto”. (…) Stavo facendo disegno anatomico. Ho fatto qualche foto quando non avrei dovuto. È stato dieci anni fa. Ma ho pensato, all’improvviso… per me, il sorriso e tutto il resto sembravano riassumere questo problema della vita e della morte. Era una maniera così ridicola di… essere sul punto di cercare di venire a termini con questo (…): questa è la vita e questa è la morte

Alcuni artisti sembrano cambiare continuamente e continuamente reinventare se stessi (un esempio è Picasso), altri sembrano avere un unico tema (come Morandi). Hirst parrebbe appartenere a quest’ultimo gruppo, considerando quanto abbia insistito sul tema della morte. Questa ‘ossessione’, sarebbe arrivata al famoso teschio tempestato di diamanti del 2007 e a “Death Denied” del 2008, un ritorno alla tecnica che lo aveva reso famoso, la tassidermia.

La svolta pittorica

A un certo punto della sua carriera, però, Hirst ha abbandonato la scultura per dedicarsi a dipingere. In questa nuova discesa agli inferi (che si rivelò un fallimento, da cui l’artista si è sollevato solo grazie alla recente mostra veneziana), il suo Virgilio è stato probabilmente quel Francis Bacon con cui l’autore del teschio da 50 milioni di euro condivideva il contatto con i cadaveri durante l’apprendistato artistico. Infatti, se Hirst aveva passato del tempo all’obitorio, Francis Bacon aveva lavorato in macelleria, esperienza che portò il pittore irlandese a riflettere: «Quando si entra in una macelleria e si vede quanto può essere bella la carne e ci si pensa, si sente tutto l’orrore della vita. Si capisce come ogni cosa vive alle spalle di un’altra»

Il problema, detto brevemente, è che Hirst non è Bacon. Questo gli è stato fatto notare da un critico dopo l’altro, da Jonathan Jones a Peter Conrad, che, per il Guardian, criticò la mostra No love lost. Blue Paintings (2009) alla Wallace Collection di Londra soffermandosi in particolar modo sui teschi, vera ossessione del nostro:

«L’osso, che dovrebbe essere così chiaro e austeramente bianco mentre la carne confusa va a marcire, pare molle e privo di struttura quando lo dipinge, come i dolciumi a forma di teschio trangugiati dai bambini messicani nel giorno dei morti. Preso un po’ dal panico, crea un pacchiano diversivo di ragnatele fatte di linee che si intersecano, un tratteggio che copre la superficie del quadro, un espediente copiato da Francis Bacon. Ma in Bacon, questi sono vettori di forza, frecce del desiderio. Qui, servono a distrarre l’occhio di chi guarda, che altrimenti non trova altro a cui dedicare il proprio interesse che un’ammaccata oscurità bluastra.»

Come ha scritto Peter Conrad, dipingere un teschio è più difficile che riempirne uno di diamanti. Chi cercasse quello che avrebbe potuto fare Hirst con un paio di lezioni di disegno in più (o con il talento dell’idolatrato e scimmiottato Bacon), potrebbe essere interessato all’opera del polacco Zdzisław Beksiński.

Chi è Zdzisław Beksiński?

Nato a Sanok nel 1929 e morto violentemente nel 2005 a Varsavia (ucciso dal figlio del suo maggiordomo, a cui aveva negato un prestito), Beksiński è stato uno che ha conosciuto la morte e non solo perché il figlio si uccise suicida. La conobbe, perché l’affrontò, dipinto dopo dipinto, nella sua arte. Se per Enrique Lihn, scrivere significa «lavorare con la morte gomito a gomito, rubarle qualche segreto», dipingere, per Beksiński non doveva essere qualcosa di molto diverso. Nell’opera del polacco, abbondano scheletri, teschi, in un’accettazione totale di questa parte della vita (in questa parte di noi, anatomicamente parlando).

Una delle sue opere più famose, spesso nota anche a chi non conosce il nome dell’autore, è questo dipinto ad olio senza titolo del 1984.

Alcune opere di Beksiński sarebbero diventate copertine di album metal. Il caso più famoso è quello degli Antestor, che per il loro album “Omen” usarono un suo dipinto del 1983.

Le atmosfere opprimenti di Beksiński potrebbero in qualche modo ricordare quelle di Bacon, il modello dell’Hirst figurativo, ma vere e dirette influenze andrebbero forse escluse dall’opera dell’artista polacco, se questi, rispondendo a un’intervista, diceva:

«Non voglio guardare quello che fanno gli altri pittori. Evito anche di guardare i cataloghi che a volte mi porta qualcuno dicendo: “questo spagnolo dipinge come te.” Porta vi questo spagnolo, fratello, perché non voglio rovinarmi l’umore.»

Luca Ventura

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