Andersen e la fiaba dell'abete: l'incapacità di vivere il presente
Fonte: Copertina Illustrata

C’era una volta un bambino magro e con un naso così lungo che veniva preso in giro continuamente dai suoi compagni di classe. Il padre era un semplice ciabattino, ma gli raccontava le storie. Hans Christian Andersen (1805-1875) nasce in Danimarca, precisamente in una delle sue città più antiche, Odense. Una sua fiaba poco nota racconta di un Abete e dell’incapacità di vivere il presente.

L’infanzia dello scrittore, autore de “La Sirenetta”, “Il soldatino di Stagno” e “Il Brutto Anatroccolo”, è caratterizzata da estrema miseria: la famiglia era poverissima e viveva tutta in una stanza.

Vi è da dire che la sua situazione familiare era particolarmente complicata anche da altri punti di vista: i genitori avevano una bisnonna in comune, la nonna materna aveva avuto figli al di fuori del matrimonio (tra cui la stessa madre di Andersen) e il nonno paterno era profondamente disturbato mentalmente. Ah, e la zia gestiva un bordello.

Ma una cosa avevano cara e preziosa e solevano tramandare di generazione in generazione: le storie.

E così è grazie al padre che Hans Christian Andersen si avvicina alla letteratura. L’uomo, stravagante e generoso, legge spesso al figlio le fiabe delle “Mille e una notte” e commedie teatrali. La madre, analfabeta, contribuisce raccontandogli racconti popolari.

La vita a Odense trascorre tranquilla, in un contesto tipicamente agricolo, pregno di tradizioni e superstizioni. Così si narra che, mentre Andersen era ancora un bambino, una vecchia donna del paese, quella che si suole definire “indovina”, si rivolse alla madre con queste parole “Un giorno Odense si illuminerà a festa per ricevere tuo figlio”.

La vita dello scrittore è anche scandita da una tragedia: a soli undici anni perde il padre. Così la sua indole si inasprisce, diventa ancor più schivo, rifugge i rapporti con i coetanei e si isola nel cortile di casa fantasticando in libertà.

A quattordici anni parte dal suo paese per tentare la fortuna nella capitale. Ha ormai 62 anni Andersen quando fa ritorno alla città natale. La profezia dell’indovina sembra prendere forma: Odense è effettivamente illuminata a festa.

Quello è un po’ il riscatto di Andersen nei confronti di quel mondo agricolo dov’era stato isolato, preso in giro e costretto all’emarginazione così come i protagonisti delle sue storie, la cui unica colpa è essere percepiti come diversi. Quegli stessi personaggi che sopportano sofferenze e dolore in virtù del conseguimento di un lieto fine, che molto spesso trovano solo nel superamento metafisico della vita che sopraggiunge con la morte.

«Non importa che sia nato in un recinto d’anatre: l’importante è essere uscito da un uovo di cigno.»

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Andersen è un osservatore meticoloso e attento: la sua vita non ha nulla di convenzionale ed egli riesce a far sua la capacità di scoprire nuove sorgenti di meraviglioso, in ogni angolo del mondo. Le sue fiabe sono frutto di suggestioni e fonti diverse, traendo ispirazioni anche dal folklore popolare.

Tra le fiabe meno note dello scrittore danese c’è quella che racconta di un Abete e dell’incapacità di vivere il presente.

Si tratta di una fiaba commovente, capace di tramettere un duplice significato e messaggio: ai bambini si propone di trasmettere il valore del rispetto per tutti gli esseri viventi, agli adulti vuole raccontare la fugacità della vita e allo stesso tempo quell’incapacità di vivere in maniera profonda il presente, il qui e l’adesso.

C’era una volta un abete che, nel pieno della sua giovinezza, non si rendeva conto di quello che aveva. Viveva continuamente proiettato a quel che sarebbe stato, al “diventare grande” nella speranza di crescere forte e rigoglioso come gli altri abeti che lo circondavano.

Ad un certo punto iniziò a sentire storie ricche di stupore, di case addobbate a festa con colori e luci: ed era lì che finivano gli abeti che se ne andavano, ad essere adornati di meraviglia dalle mani umane. Allora, all’apice della sua bellezza ed esistenza, era infelice, insoddisfatto: voleva essere lui l’abete scelto, quello adornato a festa.

Era forse questo il senso della sua vita?

Finalmente il suo momento arrivò, venne sradicato dal terreno e iniziò fin da subito a sentirne la mancanza: quello era il posto in cui era nato e cresciuto. Arrivò al centro di quel salone tanto desiderato, troneggiando la stanza, addobbato a festa. Eppure, continuava a non essere al culmine della sua felicità: iniziava a rimpiangere il passato, il sole caldo e tutte le piccole cose che non aveva mai davvero apprezzato. E allo stesso tempo fremeva, desideroso di quel che doveva venire dopo, aspettando e sperando in un futuro che non poteva ancora conoscere.

E così continuerà la sua esistenza, fino a che la parola fine non sarà messa alla fiaba e alla vita dell’abete: sempre con un piede nel passato e uno nel futuro.

La caducità della vita è così raccontata, parallelamente all’incapacità di vivere a pieno ogni momento perfino nel punto più alto, quel momento che avevamo tanto desiderato e in cui non dovevamo più avere altro da attendere.

L’incapacità di concentrarsi sul momento presente è radicata nella natura umana, portandosi dietro l’insofferenza delirante che ci spinge ad essere costantemente infelici. Ognuno di noi tende a rivolgere la mente al passato o al futuro: quest’anno, più che mai, siamo stati bloccati nel limbo del presente.

Abbiamo continuato a proiettare la nostra mente al passato che è stato, comprendendo forse profondamente l’importanza delle piccole cose e della quotidianità negataci, e allo stesso tempo abbiamo continuato a scommettere su di una data di ritiro alla “normalità”, desiderando un futuro in grado di rischiarare il grigiore di giorni che scorrono tutti uguali.

Allora se questa fiaba può insegnarci qualcosa è di vivere ogni stagione della vita, godendo dei piccoli momenti che non tornano mai uguali a sé stessi.

L’insoddisfazione costante dell’uomo è così messa alla berlina: imparare a godere del presente, diventare osservatori attenti di ciò che ci circonda, ci permette di capire che forse qualcosa di buono c’è già, c’è sempre stato.

Dobbiamo solo imparare a guardarlo ora.

Vanessa Vaia

Vanessa Vaia
Vanessa Vaia nasce a Santa Maria Capua Vetere il 20/07/93. Dopo aver conseguito il diploma al Liceo Classico, si iscrive a "Scienze e Tecnologie della comunicazione" all'università la Sapienza di Roma. Si laurea con una tesi sulle nuove pratiche di narrazione e fruizione delle serie televisive "Game of Series".

1 commento

  1. molto giusto. Rispecchia il rischio che corro oggi. Il desiderio di un traguardo futuro…A discapito del momento attuale.

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