Giovedì, 22 agosto. Kamala Harris chiude la convention di Chicago con un discorso forte, emozionale e mediaticamente efficace. Al termine di una giornata in cui hanno prevalso alcuni temi anziché altri – tra cui la sicurezza, le armi da fuoco, la criminalità e le minacce esterne – la prima candidata donna nera, vicepresidente uscente dell’amministrazione Biden, ha impostato la sua narrazione come leader forte, al servizio della libertà dei cittadini degli USA, e come leader che incarna i valori fondanti della nazione.
Nelle settimane precedenti i dubbi sollevati dai giornali e dagli addetti ai lavori su Kamala Harris non sono stati pochi. L’attuale vicepresidente non è un outsider della politica, una sconosciuta, ma negli ultimi anni è come se lo fosse stata. Joe Biden le ha affidato compiti ardui, come la gestione della crisi migratoria, che l’hanno tenuta impegnata e lontano dai riflettori. Forse un po’ per oscurare un possibile rivale in vista proprio delle primarie del 2024, un po’ per per le sue capacità – che tutti le riconoscono – fatto sta che l’assenza di telecamere ha pesato molto sul giudizio che i quotidiani e gli opinionisti hanno espresso su di lei. E quelle rare volte in cui veniva inquadrata, Harris non ha mai dato l’impressione di poter fare un figurone. Questo, fino alle ultime uscite.
Da quando la sua candidatura è stata ufficializzata, Kamala Harris ha guadagnato parecchi punti, recuperando del tutto, almeno secondo i sondaggi, lo svantaggio accumulato da Biden nei confronti di Donald Trump, ex presidente e candidato dal Partito Repubblicano. Complici un margine di manovra politica enormemente cresciuto e una narrazione più efficace, basata su elementi “radicali” come l’essere una donna, nera, immigrata di seconda generazione ma con un profondo attaccamento ai valori americani, la popolarità di Harris è vertiginosamente aumentata nelle ultime settimane, tanto da convincere gli americani che la candidata abbia molto più da offrire rispetto a quanto visto negli ultimi anni. La domanda, però, resta sempre la stessa: basterà tutto questo a battere una “vecchia volpe” come il Tycoon alle presidenziali USA 2024?
USA 2024: i repubblicani non dormono più sonni tranquilli
Rispetto a qualche settimana fa, qualcosa è cambiato davvero: la reazione dei repubblicani. Forse è questa la conseguenza più evidente della candidatura di Kamala Harris. Più della narrazione e dell’energia dell’ex procuratore, c’è una risposta nevrotica da parte del suo avversario, Donald Trump, e di un intero partito che con Joe Biden aveva trovato una strategia efficace per attaccarlo e che, ora, brancola nel buio arrivando addirittura a contraddire la sua linea politica. Durante il discorso di Harris, ad esempio, Donald Trump twittava le sue impressioni in tempo reale sui social, delle frasi sconnesse che danno prova del fatto che ci sia nervosismo in quegli ambienti. «È ingiusto che ho battuto Joe Biden e ora devono battere anche lei», avrebbe commentato il Tycoon dopo il ritiro dell’attuale presidente degli USA dalla corsa alla Casa Bianca. Una frase che dice tutto.
Anche i sondaggi certificano l’esistenza di un problema per il Partito Repubblicano e il suo candidato. Se fino all’arrivo di Kamala Harris, le rilevazioni sorridevano al Tycoon, soprattutto negli stati chiave, la situazione ora è completamente diversa: secondo gli ultimi dati a disposizione, raccolti dopo la convention democratica, l’attuale vicepresidente Kamala Harris gode di un vantaggio di circa quattro punti percentuali rispetto a Donald Trump a livello nazionale. Un risultato in linea con i sondaggi condotti nei giorni prima dell’evento dem.
È ancora tutto aperto, questo è ovvio, ma le sensazioni negative sembrerebbero essere scomparse dal dibattito democratico, essendo state sostituite da fiducia ed entusiasmo, cioè quelle con cui si è chiusa la convention. E non potrebbe essere altrimenti, in quanto fino allo scorso 21 luglio, i principali quotidiani, i repubblicani e addirittura gli stessi democratici commentavano con preoccupazione lo stato di salute del presidente e le sue reali possibilità contro un avversario di certo molto agguerrito e, dal punto di vista mediatico, più sicuro del suo avversario.
In meno di un mese Harris ha recuperato questo notevole svantaggio, passando avanti. Le elezioni restano aperte ed entrambi i candidati hanno possibilità di vincerle, soprattutto anche in vista del sistema elettorale statunitense, che si basa principalmente sulla possibilità di uno dei candidati di raggiungere la maggioranza dei grandi elettori (in totale ne sono 538, attribuiti ai 50 stati e al distretto di Columbia in base alla popolazione). In tale contesto, gli Stati che contano di più in questo calcolo sono circa sei o sette, definiti “swing state“. Storicamente è qui che si decidono le elezioni. Se prima del ritiro di Biden, l’ex presidente Trump era in vantaggio in quasi tutti gli stati chiave, con l’arrivo di Harris la situazione è in bilico. Harris è riuscita a restituire più fiducia agli elettori democratici, stuzzicando tutte le fasce demografiche e sociali, permettendo di riequilibrare lo svantaggio che, dopo un confronto tv in cui a primeggiare è stata incontrovertibilmente la democratica, sposta decisamente “l’inerzia elettorale” in favore di Harris.
Le possibilità di vittoria di Kamala Harris
È indubbio che l’arrivo di Kamala Harris abbia salvato i democratici dal baratro. Il confronto televisivo tra Biden e Trump preoccupò così tanto i vertici del partito che addirittura alcuni uomini chiave del partito consigliarono caldamente al proprio leader di ritirarsi e taluni finanziatori, come George Clooney, rilasciarono dichiarazioni che fecero precipitare le donazioni, le stesse che, con la nomina di Harris sono cresciute vertiginosamente. E il successo dell’ex procuratrice nel tanto atteso dibattito, dove il Tycoon è apparso più nervoso del solito, di sicuro ha fatto ritrovare quella fiducia che è mancata fino ad ora.
Ma la fiducia può bastare? Può essere sufficiente un cambio al vertice per segnare le sorti di un confronto elettorale così importante e che, fino a questo momento, ha saputo cambiare marcia più volte, con momenti inaspettati e altamente significativi (come l’attentato a Donald Trump). Bisogna sottolineare che Kamala Harris, nel corso della sua carriera politica, ha mostrato numerose debolezze per cui una narrazione, per quanto possa essere ben fatta, non può bastare a nasconderle. Nelle prime interviste Harris si è mostrata impacciata, ancora molto lontana da quella efficacia comunicativa che serve ad un presidente. Il confronto con Trump ha in parte risposto positivamente a questi dubbi, facendo intendere che la vicepresidente stia studiando molto sé stessa e il suo avversario, per scorgerne i punti deboli e usarli per massimizzare i propri punti di forza. Per quanto riguarda alcuni argomenti, però, il favore dell’elettorato pare essere ancora saldamente nelle mani di Trump, come sul dossier migratorio: su questo tema, buona parte dell’opinione pubblica americana sembra preferire l’aggressività di Trump alla moderazione di Kamala Harris.
La partita resta da tutta da scrivere, questo è certo, ma i nodi da sciogliere ci sono. E non sono pochi. L’incursione sulla scena di una candidata energica e giovane ha riequilibrato una partita che sembrava persa, mettendo in difficoltà i repubblicani che pensavano di avere la vittoria già in tasca, ma la strada verso il 5 novembre è ancora lunga e piena di insidie. Harris dovrà dare risposte alla classe media, ad un Paese sempre più spaccato e ad un Occidente sempre più bisognoso di una guida autorevole e presente. Quanto trasmesso fino ad ora è tanto ma ancora insufficiente per valutare se Harris sia il candidato giusto per dare risposta a tali quesiti esistenziali per un Paese, gli USA, che hanno sulle loro spalle una responsabilità globale.
Ciò non toglie, però, che Harris potrebbe essere la candidata di cui i democratici hanno bisogno per sbaragliare Donald Trump. Il cambio di strategia è evidente, e consiste nel proseguire sulla strada della moderazione. Un po’ come ha dimostrato il già citato dibattito televisivo su ABC News in cui la democratica, al contrario del suo predecessore, non ha mai dipinto il suo avversario come un mostro bensì, molto semplicemente, come un politico del tutto inadeguato, ambiguo, senza argomenti (come ad esempio, quando Trump ha accusato gli immigrati di mangiare cani e gatti, suscitando l’ilarità della stessa Harris), inadatto a guidare un Paese. Semplice ma efficace. E anche il suo riposizionamento sta avendo successo. La vicepresidente non è più vista come la “radicale socialista” di un tempo. Una cosa che ha suscitato l’interesse anche di elettori indipendenti.
La strada è quella giusta, senza dubbio. Kamala Harris è per ora riuscita nel suo intento: innanzitutto ha messo in forte difficoltà Trump, il quale durante il confronto ha faticato molto anche a mettere sul tavolo i suoi cavalli di battaglia e soprattutto ha riconsegnato fiducia e speranza ai democratici. Ora è arrivato il momento dei “dettagli”, delle proposte e delle idee concrete. Di tutto ciò che spingerà gli americani a votarla per disinnescare le numerose bombe sociali presenti in un tessuto sempre più frammentato.
Donatello D’Andrea