Palestina: decolonialità e resistenza
Bandiera Palestina (fonte: GoodFon)

La decolonialità ha una storia e una prassi che si dipanano da più di cinquecento anni e dagli albori nelle Americhe è stata una componente essenziale delle lotte translocali, di movimenti e di azioni tesi a resistere e rigettare le eredità, le relazioni e le strutture di potere sancite dal colonialismo sia internamente che esternamente. Nel disegno del mondo moderno e coloniale rientrano necessariamente il controllo del lavoro e delle soggettività, le pratiche e le politiche di genocidio e di schiavitù, il saccheggio delle terre e della vita, la negazione e l’annullamento della conoscenza, del pensiero, della spiritualità e dell’umanità. La decolonialità, pertanto, deriva, segue e risponde alla colonialità tuttora esistente come nel sanguinario caso della Palestina: si tratta di una forma di lotta e di sopravvivenza, di un antagonismo epistemico ed esistenziale – specialmente da parte delle soggettività colonizzate, razzializzate e genderizzate – in contrapposizione alla matrice coloniale del potere in tutte le sue dimensioni ed è perciò volta a generare la concreta e pluriversale possibilità d’un altrimenti.

La colonialità è generata dalla modernità ragion per cui non vi può essere modernità senza colonialità e per porre fine a quest’ultima bisogna estirpare le finzioni frutto della modernità. Difatti, in conformità a una prospettiva decoloniale, la modernità altro non è che un artefatto etnocentrico e imperialistico, un costrutto composto da attori, istituzioni, culture e lingue di cui beneficiano coloro che ne hanno costruito l’immaginario e che naturalmente lo sostengono mediante la conoscenza e la guerra, mediante i mezzi militari ed economico-finanziari.

Il mondo si è strutturato e organizzato, nella modernità, attraverso l’esperienza coloniale e i rapporti di potere simbolico-materiali alla sua base che si sono instaurati nel tempo, trascendono ormai la stessa realtà storica del colonialismo da cui sono sorti. La colonialità, oltre a perpetrarsi brutalmente tuttora in alcune parti del globo tramite forme di dominazione umana e territoriale, sussiste nelle onnipervasive, gerarchizzanti e naturalizzate categorie mediante cui si pensa e si riproduce il circostante sul piano simbolico, cognitivo, politico e sociale.

Ciò ha inevitabilmente fatto sì che vi fosse l’organizzazione delle popolazioni del pianeta in conformità a una «differenza coloniale», cioè un dispositivo capace di stabilire universalmente l’indiscussa supremazia – di matrice etero-cis-patriarcale e capitalistica – nell’esercizio del potere e della legittimazione del sapere della popolazione bianca occidentale rispetto a tutte le altre popolazioni assoggettate e non, al fine di riprodurre, teologizzare ed estendere i rapporti di potere socio-economici già consolidati. Si tratta, quindi, di un dominio coloniale che è non solo espressione della presenza ancora insormontabile di una struttura di potere storicamente e politicamente non inedita ma che si manifesta ancora attraverso i violenti registri della pratica di conquista territoriale, così come di risorse e mercati, con la conseguente estromissione della componente umana e della biodiversità preesistente: una struttura economico-politica, giuridica e militare definita da pratiche di accumulazione per gli uni e spossessamento e morte per gli altri.

Dunque, infrangere il principio di colonialità è la conditio sine qua non per superare le relazioni di dominio costitutivamente razziste e sessiste e per decolonizzare il mondo, le sue strutture di potere e di pensiero. Bensì nell’ottica di evitare possibili feticci teorici e sterili universalismi in relazione alla decolonialità, riprendendo il filosofo argentino Walter D. Mignolo, urge precisare: «La risposta alla domanda «Cosa significa decolonizzare?» non deve essere astratta e universale. Deve essere una risposta data guardando alle altre domande: chi lo sta facendo, dove, perché e come?».

A tal riguardo, la lotta di liberazione della Palestina, ben oltre le pulsioni retoriche e feticizzanti, si pone al centro dei discorsi e delle prassi dei movimenti anti-imperialisti e decoloniali già dalla metà del secolo scorso, e, difatti, si situa ancora concretamente e simultaneamente al fianco di altre realtà frutto delle differenti forme di oppressione lungo il globo che perdurano congiuntamente tramite i costanti flussi di capitale, le dinamiche di dominio e d’espropriazione e la grammatica della razza. Perciò urge ripensare la Palestina non più come una questione isolata o meramente simbolica, bensì come parte attiva affinché si possa sia comprendere le istanze specifiche delle e dei palestinesi nelle lotte di auto-determinazione e di giustizia socio-ambientale per un altro mondo possibile, sia per riconoscere ed eradicare il sionismo in quanto parte integrante della genealogia del colonialismo di insediamento e di sterminio e dell’ingiustizia su scala transnazionale.

«E vi preghiamo, quello che succede ogni giorno non trovatelo naturale. Di nulla sia detto: “È naturale” in questi tempi di sanguinoso smarrimento, ordinato disordine, pianificato arbitrio, disumana umanità, così che nulla valga come cosa immutabile». (B. Brecht).

Sionismo: anatomia di un genocidio

La colonizzazione sionista della Palestina è l’esempio parossistico di un modus operandi estrattivista, disumanizzante, suprematista e genocidario, nonostante il vittimismo e l’eccezionalismo di cui s’ammanta lo Stato d’Israele non solo allo scopo di occultare le costanti e brutali ingiustizie perpetrate a nocumento della popolazione palestinese già da prima del 1948 anno della Nakbama finanche per oscurare la miriade di connessioni tra la Palestina e le comunità oppresse nel resto del mondo. Difatti, la distorcente narrazione sionista si lega indissolubilmente sia all’interpretazione strumentale della predizione teologica della Torah circa il «popolo eletto», sia al modo in cui lo Stato d’Israele questa mitologica entità senza «paralleli nella storia» in risposta alla millenaria diaspora ebraica ha strumentalizzato il dramma della Shoah e ha avvalorato negli anni le pratiche di land grabbing e le sue vittorie in guerra come l’espressione unica ed eccezionale di una forma di difesa di un’intera civiltà, quella occidentale bianca, insediatasi ed espansasi nei territori palestinesi.

Sicché, l’invasione sionista della Palestina e l’auto-proclamazione dello Stato di Israele orbitano attorno a una violentissima operazione ideologica incarnatasi in una sistematica strategia bio-politica: la soppressione e la negazione dell’esistenza della popolazione palestinese considerata infima e retriva.

Pertanto, questo esiziale e istituzionalizzato progetto coloniale è stato corroborato dalla weltanschauung secondo cui il compito supremo degli ebrei sionisti, che avrebbero dimorato nell’antichità su quei terreni, fosse quello d’insediarsi e d’occupare una terra nullius semideserta al fine di appropriarsene definitivamente e modernizzarla. Si è così consumato un vero e proprio furto legalizzato dei territori palestinesi e ciò ha comportato ineluttabilmente la funzionale cancellazione identitaria e giuridico-sociale dei nativi al fine di trasformarli, de facto, in apolidi sulla propria stessa terra.

Così Israele ha architettato un sofisticato regime di apartheid attraverso la segregazione, lo sfruttamento, la capillare sorveglianza, la criminalizzazione, l’invisibilizzazione e l’annientamento della popolazione colonizzata; giustificando ciò arbitrariamente attraverso un tentacolare apparato politico e mediatico-militare censorio e propagandistico che paventa una costante minaccia terroristica e anti-semita diretta verso il cosiddetto spazio vitale sionista e che sciorina – soprattutto in ambito educativo – una discriminatoria differenza etno-storica naturalizzante e autoperpetuante ad appannaggio degli stessi israeliani.

In conformità a questa logica fascistizzante dell’eliminazione si è stabilita una norma organizzativa volta alla gestione, sottomissione e silenziamento della componente umana in Palestina che non si riesce a eliminare, per cui all’interno del contesto societario sionista agiscono contemporaneamente non solo la violenza predatoria di un capitalismo rapace, non solo l’istituzione di stati di diritto e di eccezione inabrogabili, ma tutto sottostà a forme di egemonizzazione e razzializzazione istituzionalizzate.

Così si è drammaticamente suggellata e legittimata una condizione esistenziale disumana della popolazione palestinese del tutto soggiogata, vessata in nome di cliché svalutanti, dispersa in nome di un diritto biblico, ghettizzata in nome della sicurezza e, in diverse forme, vittima di un’epurazione etno-razziale che rispecchia esattamente l’irrefrenabile desiderio di totale sparizione dell’Altro connaturato all’efferato colonialismo d’insediamento.

Scrive lo storico israeliano Ilan Pappé: «Ogni atto […] è sempre stato descritto come moralmente giusto e come puro atto di autodifesa, perpetrato a malincuore da Israele nella sua guerra contro la peggiore specie di esseri umani. […] Dobbiamo cercare di spiegare non solo al mondo, ma anche agli stessi israeliani, che il sionismo è una ideologia che appoggia la pulizia etnica, l’occupazione e anche massicci massacri». In tal senso lo Stato d’Israele non è altro che un riadattamento radicale e storico-divino della missione civilizzatrice dell’Europa e del suo colonialismo ricostruttivo teso alla costruzione di una nuova e differente società democratica in un contesto mediorientale di stampo fondamentalista, che si erge in quanto moralmente e ontologicamente superiore e, quindi, più civilizzata. Da ciò la vulgata del Davide israeliano contro il Golia arabo, seppur, in realtà, Israele è solamente l’icastica rappresentazione di Crono che fagocita a ogni istante le figlie e i figli della terra palestinese, ormai da più di settantasei anni.

Spesso i territori palestinesi – la Cisgiordania e in particolar modo la striscia di Gaza – sono per il sanguinario Stato sionista d’Israele dei veri e propri obiettivi militari, non, quindi, dei territori autonomi abitati da una popolazione civile di ogni età con bisogni primari, sociali e aspirazioni individuali e collettive. Rafah, Jabalia, Ramallah, Gaza e le altre città presenti sul suolo palestinese non dovrebbero essere considerate diversamente da Roma, Londra, Parigi e qualsiasi altra città del mondo. Ciononostante per Israele sono soltanto agglomerati urbani fittizi da devastare e da occupare, dove spesso l’esercito può sperimentare impunemente le armi più avanzate – fornitegli prevalentemente dagli Stati occidentali – dando adito a carneficine e perpetrando così crimini di guerra e necro-politiche di pulizia etnica. Quindi il bio-potere sionista esercita un dominio assoluto sugli abitanti dei territori occupati della Palestina.

Pratiche di deterrenza, di rappresaglia, di sfruttamento, d’espulsione e di sterminio, carri armati, bulldozer, bombardamenti aerei e marittimi, brutali incursioni dell’IDF o dei coloni israeliani, intere aree abitate occupate o rase al suolo, blocco degli approvvigionamenti, totale distruzione dei terreni coltivabili, delle reti di comunicazione, delle scuole, delle università, degli ospedali, dei luoghi sacri, di altre infrastrutture nevralgiche, saccheggio dei simboli politico-culturali, arresti ingiustificati, torture, stupri, esecuzioni extra-giudiziarie e costanti massacri di civili innocenti: tutto questo è all’ordine del giorno per poco più di cinque milioni di palestinesi.

In maniera ancor più barbarica la violenza sionista si accanisce sui circa due milioni di abitanti della striscia di Gaza, ammassati, segregati e trucidati su un lembo di terra che si estende per 365 km²: il più grande lager a cielo aperto del mondo, dove avviene da più di settantasei anni un silente genocidio con la complicità degli Stati occidentali – in particolar modo gli USA – e l’inefficacia della Comunità Internazionale. Israele così si avvale, in realtà, impunemente d’un unico diritto: il diritto di disumanizzare e d’uccidere.

Carlos Latuff (InfoPal)

Dal 7 ottobre dello scorso anno si è per l’ennesima volta acutizzata l’azione bellica di sterminio nei confronti della popolazione civile sulla striscia di Gaza con continui raid aereo-militari e una gravissima carestia indotta, il numero delle vittime è, a ora, di circa 36mila, più 78mila feriti con la devastazione su larga scala dell’intero territorio. Ciò è l’ulteriore dimostrazione di un’atroce ironia della storia: lo Stato colonialista-sionista dei superstiti dell’olocausto sta praticando a tutti gli effetti in Palestina un altro incessante olocausto.

Ciononostante, sussiste una difformità storica essenziale che la giornalista russa Maša Gessen rimarca esaustivamente: «La più grande differenza tra Gaza e gli ebrei nei ghetti nell’Europa occupata dai nazisti è che gli abitanti di Gaza, molti di loro, sono ancora vivi e il mondo ha ancora un’opportunità per fare qualcosa al riguardo».

Palestina e Sumud: resistere all’oppressione

Le soggettività palestinesi sono forgiate da una inesauribile prassi poltico-culturale della resistenza, da una vitale contrapposizione a un regime coloniale e genocidario; ciò le radica sempre più nella propria terra mentre Israele cerca, invece, di egemonizzarle e di sradicarle fisicamente e culturalmente. A Gaza, pertanto, v’è una popolazione che non cessa di rifiutare strenuamente d’essere colonizzata, soggiogata e soffocata. Riprendendo le parole della psichiatra palestinese Samah Jabr: «Il sumud costituisce la base di una vita di resistenza, ancorata alla terra come un olivo dalle radici profonde, che preserva l’identità, cerca l’autonomia e la capacità d’agire, salvaguarda la storia dei palestinesi e la loro cultura dall’annientamento. […] Quando l’occupazione sradica i nostri ulivi ne piantiamo altri. Quando demoliscono le nostre case ne ricostruiamo di nuove. Quando chiudono le nostre scuole ne improvvisiamo di altre. Quando oscurano la nostra storia, noi opponiamo loro le nostre testimonianze, i nostri ricordi e le nostre prove. Quando ci categorizzano in base alle carte d’identità, alle targhe delle automobili e ai partiti politici, noi ci impegniamo a stabilire legami solidali per mezzo di un’azione collettiva che preservi la coerenza della comunità. […] il sumud non accetta lo status quo, […] questa posizione dolorosa in cui si cerca la nostra libertà perduta con la speranza di ritrovarla un giorno».

L’ininterrotto avvicendarsi di guerre, occupazioni e assedi implica che le e i palestinesi – dannate e dannati della terra – non abbiano alternativa, perciò qualsivoglia forma di sovversione e di resistenza rispetto all’oppressione è un atto quotidiano necessario, terapeutico e di auto-riconoscimento che interrompe il processo di annichilimento dei medesimi soggetti colonizzati e dà vita alla possibilità di reinventare un percorso di umanizzazione e di liberazione individuale e collettiva. La scelta di lottare diviene inevitabile di fronte a un permanente stato di disumanità: una lotta – anche armata – per la libertà non è né morale né immorale, è una inalienabile rivendicazione e necessità umana storicamente determinata nel doveroso cammino verso la decolonizzazione, verso l’emancipazione.

Tutte le popolazioni native, in Palestina, in Australia, in America e in Sud Africa, in Messico, in Kurdistan e altrove, che difendono e hanno difeso il diritto alla terra e a un’esistenza degna d’esser vissuta dinanzi a una barbarica invasione esterna hanno permesso di smascherare e di combattere le strutture dominanti e coloniali succedutesi nel tempo che disseminano devastazione e morte; aprendo a nuovi metodi di esistenza, di resistenza e di alleanze locali e globali. Così attraverso la geografia della rabbia e la grammatica della rivoluzione è possibile, forse, costruire collettivamente un contro-paradigma incentrato su un principio non negoziabile: il libero sviluppo di ognunə è la condizione per il libero sviluppo di tuttə.

Infine, quanto sta accadendo in Palestina e in ogni comunità oppressa e martoriata fa emergere veementemente una riflessione epocale in questi tempi di alienante individualismo, di pornografia del dolore, di incalzanti conflitti imperialistici, repressioni e autoritarismi: una soggettività si realizza e diviene ciò che è in base a quanto è disposta a sacrificare – ad abbandonare la propria e reiterata «zona d’interesse» – per ottenere la liberazione di sé e di ogni altra soggettività umana e non-umana.

Vittorio Arrigoni

«Qualcuno fermi questo incubo. Rimanere immobili in silenzio significa sostenere il genocidio in corso. Urlate la vostra indignazione, in ogni capitale del mondo «civile», in ogni città, in ogni piazza, sovrastate le nostre urla di dolore e terrore. C’è una parte di umanità che sta morendo in pietoso ascolto. Restiamo umani» – Vittorio Arrigoni, Gaza. Restiamo Umani.

Gianmario Sabini

Gianmario Sabini
Sono nato il 7 agosto del 1994 nelle lande desolate e umide del Vallo di Diano. Laureato in Filosofia alla Federico II di Napoli. Laureato in Scienze Filosofiche all'Alma Mater Studiorum di Bologna. Sono marxista-leninista, a volte nietzschiano-beniano, amo Egon Schiele, David Lynch, Breaking Bad, i Soprano, i King Crimson, i Pantera, gli Alice in Chains, i Tool, i Porcupine Tree, i Radiohead, i Deftones e i Kyuss. Detesto il moderatismo, il fanatismo, la catechesi del pacifismo, l'istituzionalismo, il moralismo, la spocchia dei/delle self-made man/woman, la tuttologia, l'indie italiano, Rosa Chemical e Achille Lauro. Errabondo, scrivo articoli per LP e per Intersezionale, suono la batteria, bevo sovente per godere dell'oblio. Morirò.

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