La strategia cinese in Africa subsahariana, neocolonialismo o pragmatismo economico?
Fonte: istockphoto.com

Quando si analizza l’influenza cinese in Africa è giusto chiedersi che tipo di controllo il gigante asiatico eserciti sul continente e quale strategia adotti. In molti parlano di una forma di neocolonialismo, che non è da escludere. Tuttavia, l’approccio cinese parrebbe più una forma di pragmatismo economico, che una volontà di utilizzare mezzi coercitivi per imporsi sul territorio.

La Cina ragiona lucidamente mirando al raggiungimento dei propri interessi: i paesi africani sono indispensabili per l’agenda di sviluppo della potenza dell’Asia orientale. La dirigenza cinese ha l’obiettivo di assicurarsi le risorse energetiche sufficienti per sorreggere la propria crescita economica. In questo progetto, finisce per assumere poca importanza la situazione economica e sociale africana in sé, che è da tener in conto solo nella misura in cui va ad influire sul raggiungimento degli obiettivi del Dragone.

La situazione africana

Gli effetti economici della pandemia da Covid-19 in un continente come l’Africa rischiano di essere sostanziali e di lunga durata. Molte nazioni africane si trovano già sul libro nero del Fondo Monetario Internazionale, per cui difficilmente potranno sperare di ottenere altri prestiti internazionali, soprattutto data la situazione economica mondiale.

Il deficit infrastrutturale, che caratterizza tutto il continente africano, trova la sua massima espressione nella regione subsahariana. Tale deficit penalizza la produttività e la competitività e influisce negativamente sul livello di commercio intra-africano. Ben otto nazioni africane sono infatti tra i dieci paesi al mondo con le infrastrutture più carenti. Per vedere un miglioramento, gli investimenti nel settore dovrebbero più che raddoppiare.

La principale fonte di finanziamento per le infrastrutture africane è il debito estero, ovvero il debito collettivo contratto da una nazione verso creditori stranieri. Tra i principali creditori internazionali del debito estero africano spicca senza dubbio la Cina. Con la pandemia anche la Cina ha riscontrato problemi con il proprio potenziale di investimento e una nuova volontà protezionistica limita la sua capacità commerciale. Nel primo trimestre del 2020 l’economia cinese aveva già registrato una contrazione del PIL su base annua pari al 6,8% (la più alta dal 1992). Questo ha comportato un aumento della disoccupazione e un’incertezza circa la sorte di numerose imprese.

Tuttavia Pechino resta il principale creditore del debito estero totale africano e continua ad investire massicciamente nel continente. Pur rivelando alcune criticità nelle dinamiche relazionali, la pandemia non ha infatti frenato l’interesse reciproco a mantenere rapporti saldi e duraturi. In un discorso tenuto dal presidente Xi Jinping il 17 giugno 2020, durante il Summit straordinario Cina-Africa, veniva dichiarato come la Cina avrebbe esonerato alcuni paesi africani dal rimborso dei prestiti a tasso zero. Il 18 maggio dell’anno scorso, in occasione della settantatreesima Assemblea dell’OMS, Xi aveva già annunciato che la Cina avrebbe stanziato due miliardi di dollari in aiuti internazionali nell’arco di due anni per i paesi in via di sviluppo.

I creditori occidentali, dal canto loro, non vogliono concedere pacchetti di riduzione del debito poiché temono che i finanziamenti potrebbero essere usati per ripagare i debiti con la Cina. Alcuni accordi di finanziamento con il gigante asiatico sono infatti estremamente aleatori: si utilizzano materie prime come mezzo di rimborso o garanzia. Questo tipo di accordi sul valore futuro di una merce, piuttosto che sulla sua quantità, sono particolarmente rischiosi perché il prezzo di questa potrebbe variare massicciamente, rendendo d’un tratto gli accordi estremamente svantaggiosi per i debitori. La paura degli investitori occidentali è dunque comprensibile data la strategia cinese, che genera incertezza, e anche a causa della perdurante crisi economica causata dal Covid.

Africa, i paesi a rischio insolvenza

I paesi africani che hanno contratto debiti con la Cina sono molti. Tra i casi più esemplari vi è quello di Gibuti. Il paese in questione ha un debito con la Cina che supera il 70% del suo PIL. Il Covid ha reso necessario aumentare le spese per l’assistenza sanitaria e per l’occupazione. Si teme che a causa della situazione economica in cui versa la nazione, la Cina potrebbe appropriarsi della gestione del porto di Doraleh. Quest’ultimo, trovandosi all’ingresso del Mar Rosso e del Canale di Suez, è una base strategica per il commercio mondiale. Pechino ha sempre negato di voler arrivare alla cessione della gestione da parte di Gibuti, tuttavia non si sa cosa realmente accadrebbe in caso di insolvenza del paese.

Similare è la situazione del Kenya, in cui il governo ha usato il porto di Mombasa come garanzia dei prestiti cinesi destinati alle infrastrutture. In caso di insolvenza la Cina prenderebbe il controllo del Porto e di una parte delle risorse minerarie del paese. Il Kenya rischia effettivamente di veder compromessa la sua situazione economica già precaria, a causa del suo approccio alla pandemia. Il paese ha infatti immediatamente chiuso i confini, imposto il coprifuoco e limitato gli spostamenti. Tali misure, pur se ampiamente comprensibili, hanno posto un freno significativo alla crescita economica che aveva interessato la classe media negli ultimi anni pre-Covid. Classe sociale fondamentale per le aspirazioni economiche del paese, la cui ascesa potrebbe garantire maggior progresso e giustizia sociale, grazie ad una graduale ripartizione della ricchezza.

Anche l’Angola ha deciso di estendere il controllo cinese sui giacimenti di petrolio in cambio di una riduzione del debito. Una tale offerta dimostra la debolezza del negoziatore angolano nella contrattazione. La Cina può esercitare una forte pressione sul paese, specialmente per il sostegno prestatogli in seguito alla lunga guerra civile scoppiata alla fine del colonialismo portoghese. Tale supporto cinese va analizzato alla luce degli interessi di Pechino per le risorse petrolifere presenti in Angola e per la volontà di assicurare la costruzione di infrastrutture fondamentali per gli scambi commerciali bilaterali.

Strategia cinese: il controllo delle infrastrutture

In ogni caso, il sequestro di beni strategici non risulta finora una strategia privilegiata dall’espansionismo economico cinese. La Cina, infatti, sembra in ogni situazione scegliere la strada della dilazione dei termini del pagamento in caso di insolvenza. Da oltre due decenni la nazione sta rivolgendo la massima attenzione all’Africa e veder fallire i suoi partner economici non è auspicabile, anche se vorrebbe dire potersi appropriare delle infrastrutture e delle risorse. Altamente probabile è che i debiti vengano invece rinegoziati bilateralmente in caso di difficoltà, come è successo anche con l’Etiopia nel 2018.

Gli investimenti diretti esteri cinesi nel continente sono aumentati costantemente dal 2003 ad oggi, mentre quelli USA hanno raggiunto il loro massimo nel 2009 per poi iniziare a calare. Inoltre, la Cina sta portando competenze manageriali, know-how ed energia imprenditoriale, non solo capitali: basti pensare che nell’ultimo decennio oltre un milione di cinesi si sono trasferiti in Africa. Questo perché la nazione vuole garantirsi l’accesso a riserve stabili e sicure di materie prime, aiutando a sviluppare l’industria estrattiva e costruendo le infrastrutture necessarie. La scelta dell’Africa non è casuale, data la quantità di materie prime ancora poco sfruttate del continente.

L’elemento fondamentale del partenariato sino-africano è il dunque il pragmatismo economico. La strategia cinese consiste nel guardare all’Africa attraverso la lente della non ingerenza: non richiede delle condizioni minime per concedere finanziamenti, a differenza degli stati occidentali. Dittature o democrazie, per Pechino è indifferente. Da sempre l’unica richiesta cinese è il rispetto della One China Policy, ovvero non riconoscimento di Taiwan. Questo la rende un partner commerciale paradossalmente meno ingerente, nell’ambito della forma di Stato, rispetto agli investitori europei e nord americani.

In definitiva, l’approccio cinese non sembrerebbe definibile come un vero e proprio neocolonialismo, poiché l’interesse ultimo non è quello di espropriare il controllo, quanto di garantirsi i benefici degli scambi il più a lungo possibile. Tuttavia, l’ingerenza che ne deriva negli affari africani è innegabile e il tipo di condizionamento delle varie sovranità nazionali potenzialmente esponenziale.

Sara Valentina Natale

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