«Non ce la facciamo più. Siamo esausti, siamo vittime, martiri, è solo questione di tempo, resteremo uccisi uno a uno». Il giornalista Salman al-Bashir era in diretta per Palestine TV dall’ospedale Nasser, nel sud della Striscia di Gaza, quando è venuto a conoscenza della morte del collega Mohammed Abu Hatab. Travolto dal dolore, è scoppiato in un’invettiva verso le condizioni di continuo pericolo in cui versano i giornalisti palestinesi a Gaza. Neppure la conduttrice in studio da Ramallah è riuscita a trattenere le lacrime, mentre al-Bashir ha iniziato a gettare a terra con sdegno l’elmetto e il giubbotto antiproiettile recante la scritta “Press”, che da scudo sembra essersi ormai trasformata in un obbiettivo a cui mirare. «Questi giubbotti ed elmetti protettivi non ci difendono, sono solo slogan che noi indossiamo. Non proteggono nessun giornalista, sono solo slogan», ha continuato al-Bashir. Quel giorno era il 5 novembre, e da allora sono seguiti innumerevoli servizi simili che, nel colpevole silenzio del mondo intero, hanno continuato ad aggiungere gli operatori dell’informazione in un necrologio che a oggi conta più di 100 nomi – il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ) calcola siano 70, secondo altre fonti sarebbero 111.
Come dimenticare i tanti reporter – messaggeri e involontari martiri, come sottolineava al-Bashir – le cui voci rotte dal dolore hanno continuato a raccontare senza tregua gli orrori di Gaza nella vana speranza di essere ascoltati. Wael Dahdouh, direttore della sede di Al Jazeera a Gaza, è divenuto ormai un simbolo del giornalismo palestinese per la sua capacità indomita di testimoniare i fatti. La scorsa settimana un attacco aereo israeliano ha colpito un’auto a Rafah uccidendo il figlio maggiore Hamza, giornalista anch’egli, insieme al collega Mustafa Thuraya. Dahdouh ha partecipato al funerale del figlio per poi tornare rapidamente al suo lavoro: «Nulla è più duro del dolore di una perdita, e quando si sperimenta questo dolore più volte, esso diventa più duro e più grave», ha riferito ad Al Jazeera. «Desidero che il sangue di mio figlio Hamza sia l’ultimo dei giornalisti e l’ultimo della gente qui a Gaza, e che questo massacro si fermi».
Chiara Cruciati ha intervistato per il manifesto Shuruq Asad, portavoce del Sindacato dei giornalisti palestinesi (PJS), la quale ha raccontato cosa comporti essere giornaliste a Gaza: «Significa che puoi perdere la vita ogni minuto, perdere la tua famiglia ogni minuto. Significa che sei sfollato dalla tua casa, dal tuo ufficio, dal tuo quartiere. Non hai accesso a internet, all’elettricità, al carburante per viaggiare e lavorare. Significa stare in una tenda al freddo e sotto la pioggia. Significa che non puoi raggiungere i luoghi che hai diritto di raggiungere. Se vieni ferito non hai accesso a cure mediche». A riprova dei rischi insiti nello svolgere la professione, a ottobre le Forze di difesa israeliane (IDF) avevano comunicato alle agenzie di stampa Reuters e France Presse di non poter garantire la sicurezza dei giornalisti che operano nella Striscia di Gaza.
Israele, inoltre, costringe le testate giornalistiche a firmare un documento di dodici pagine affinché accettino le condizioni imposte dal Censore delle forze armate israeliane per avere accesso alla Striscia di Gaza: tutti gli articoli e le fotografie devono essere approvate dall’IDF. La CNN è una tra le diverse testate internazionali ad aver siglato questo accordo, operando così sotto il controllo dell’emittente di Gerusalemme, che a sua volta agisce in osservanza al Censore Militare dell’IDF, creando, difatti, una narrazione distorta e propagandistica dei crimini di guerra compiuti da Israele.
Ed è proprio per ragioni etiche e in segno di protesta a quella che è la copertura mediatica parziale, quando non esplicitamente complice, offerta ormai da mesi da gran parte della stampa occidentale in merito alle vicende in Palestina, che Raffaele Oriani, giornalista di Repubblica, pone fine alla sua collaborazione con il giornale: «Quanto accaduto il 7 ottobre è la vergogna di Hamas, quanto avviene dall’8 ottobre è la vergogna di noi tutti. Questo massacro ha una scorta mediatica che lo rende possibile. Questa scorta siamo noi. Non avendo alcuna possibilità di cambiare le cose, con colpevole ritardo mi chiamo fuori» – ha scritto in una lettera.
Quanto sta accadendo suscita innumerevoli interrogativi in merito al ruolo della stampa che dovrebbe essere testimone dei fatti, nel loro costante rivolgimento, e in ciò cercare di disvelare la verità. Non dovrebbe, pertanto, essere cassa di risonanza del potere e medium propagandistico degli interessi economico-politici. Il giornalismo dovrebbe far emergere ciò che le persone al potere vorrebbero invece nascondere, non fare loro da scorta. Solo così riesce a mantenere quel ruolo di quarto potere fondamentale in un contesto libero e democratico. Se a essere attaccati e censurati sono gli Ermes della verità, coraggiosi custodi delle voci delle vittime di Gaza, la verità insanguinata può restare impunita. Se giungono a noi solo le notizie che hanno passato il vaglio dell’IDF, avremo un racconto tremendamente frammentato delle atrocità di Gaza e della verità.
Celeste Ferrigno