Del Popolo che non conquisti la sua indipendenza politica, si dice non possa mai aspirare ad essere il protagonista della sua Storia, e che sia dunque destinato a restare ai margini della storia di quella nazione che lo ha vinto e dominato. Il Popolo Sardo potrebbe a pieno titolo vantare motivazioni di tipo storico, geografico e linguistico a supporto di una sua pretesa di partecipare – come protagonista – alla sua storia.
Dopo quasi tre secoli di politiche di assimilazione forzata e di snazionalizzazione, tali motivazioni sembrano tuttavia offuscarsi, specie dovendosi confrontare con un mondo sempre più globalizzato e multiculturale. Non mancano in Sardegna i movimenti che si richiamano alle istanze indipendentiste, o più moderatamente a richieste di maggiore autonomia politica e fiscale, ma nell’amministrazione della politica isolana sono sempre stati relegati all’angolo a causa di molteplici fattori: la frammentazione dell’area indipendentista-autonomista e la scarsa credibilità di quella classe politica che ha tentato di porsi a capo di quest’area hanno fatto sì che il Popolo sardo si disaffezionasse pian piano alla causa, a differenza di altri popoli senza nazione che invece negli anni hanno ottenuto importanti successi e riconoscimenti sia in Italia che nel resto d’Europa.

Di fianco all’uso della forza paramilitare dei movimenti indipendentisti baschi e irlandesi, sono nati altri movimenti che hanno fatto della democrazia – e non solo della demagogia – il loro insostituibile punto d’appoggio, come in Catalogna o in Scozia.
In Sardegna non si è andati in nessuna delle due direzioni prese dai principali esempi che ci arrivano dall’Europa, perché è – in effetti – mancato un progetto rivoluzionario. Sembra proprio che al Popolo Sardo sia mancata innanzitutto quella élite culturale – colta, vivace e coraggiosa – capace di portare avanti non solo una strategia di lungo periodo per la resistenza disperata alla dominazione straniera e per l’agognata conquista dell’indipendenza ma soprattutto capace di individuare – e promuovere adeguatamente – i motivi profondi e gli scopi dell’indipendenza.

I tantissimi, troppi e troppo diversi movimenti indipendentisti non solo si sono limitati a constatare la loro ininfluenza e l’inattuabilità del loro motivo d’esistenza, ma vi si sono addirittura adagiati diventando di fatto i principali e inconsapevoli alleati dell’incontrastato potere dei partiti nazionali nella politica isolana. Nessuno sforzo è stato fatto per diventare una credibile alternativa a quello che essi chiamano ancora colonialismo italiano, e ci si è limitati alla rievocazione di un sogno identitario, fondato su fragili e spesso inesatte basi storiche, e all’utilizzo demagogico del campanilismo di pancia.
Questa classe politica sardista si è insomma limitata a desiderare una velleitaria dichiarazione d’indipendenza, o una richiesta eterogenea di maggiore autonomia, e ha rinunciato a connotare la propria lotta con i caratteri del riscatto sociale e del ribaltamento rivoluzionario dello status quo oppresso-oppressore inseguendo una trasversalità che ne ha svilito e annacquato la sostanza. Identificare la lotta indipendentista sarda come una lotta degli oppressi, dei subalterni, che si vogliono ribellare al padrone, non sarebbe stato privo di fondamento – il soprannumero di basi militari italiane e straniere sul suolo sardo basterebbero di per sé a considerarle valide –, ma avrebbe comportato una presa di posizione qualificabile, in parole povere, come di sinistra.

Secondo alcune ricerche, alle tematiche dell’indipendenza sarebbe sensibile un sardo su due, mentre l’area autonomista-indipendentista raccoglierebbe complessivamente un consenso del 28% tra i sardi.
Quest’area è talmente vasta ed eterogenea da ricomprendere al suo interno partiti indipendentisti e partiti autonomisti, contrari a qualsiasi alleanza con i partiti nazionali e favorevoli ad alleanze di scopo, partiti schierati espressamente a sinistra e partiti che inseguono un regionalismo in salsa simil-leghista.
L’unica base comune, al quale vorrebbero attingere tutti e su cui tutti vorrebbero fondare un travagliato percorso di unificazione, sembra a questo punto essere fatta di luoghi comuni e inesattezze pure molto ricorrenti. Da fantasiose ricostruzioni storiche sulla civiltà nuragica, su cui molti aspiranti sardisti sembrano sapere molto più di storici e archeologi, fino alla presunzione di innata superiorità del sardo rispetto ai “continentali” che supera il confine della barzelletta.

Esagerato senza dubbio identificare queste fesserie goliardiche, a cui nessuno crede veramente, con il sardismo diffuso nella popolazione isolana. Altrettanto non ci può illudere che il sardo medio, nel definirsi “sensibile alle tematiche dell’indipendenza”, prenda maggiormente sul serio queste ultime più di quanto non faccia con le barzellette e i luoghi comuni. Semplicemente non è così: la stessa classe politica sarda (sardista o meno che sia) è semplicemente lo specchio del Popolo Sardo.
Ma basta forse questo per tacciare di cialtroneria chiunque si rifaccia al sardismo o all’indipendentismo in Sardegna? La risposta è certamente negativa. Sicuramente è comprensibile uno scetticismo di fondo, in un argomento in cui le domande superano di gran lunga le risposte disponibili, ma non del tutto giustificato.

Oltre la demagogia, c’è anche chi si sforza, non senza momenti di sconforto, nel risollevare in modo serio la questione, nel tentativo di trovare una risposta credibile a chi per esempio si chiede che senso abbia parlare di indipendenza in un epoca di globalizzazione e come possa un’isola come la Sardegna vivere da sola. La risposta appare più semplice di quella che potrebbe sembrare: quale paese del mondo vive oggi da solo? Nessuno. Neanche gli Stati Uniti o la Cina vivono solo delle loro risorse, e a minor ragione potrebbe sopravvivere l’Italia senza essere inserita in un mercato globale dove esportare e da dove importare tutto il necessario per una società di benessere. Insomma: indipendenza non vuol dire autarchia!
A chi ritiene oggi che il sardismo costituisca una forma di de-responsabilizzazione volta a scaricare le colpe dei sardi in un capro espiatorio, si può infine tranquillamente replicare che al contrario l’istanza indipendentista, così come qualsiasi autonomismo serio, è volta ad una maggiore responsabilità del popolo sardo nelle decisioni e non solo ad una maggiore fruizione di diritti.

Frammentazione e tentativi di unificazione

Nel vasto panorama eterogeneo dei partiti sardisti la situazione può essere paragonata, non senza ironia, a quella della sinistra radicale italiana: disperata. La consapevolezza che, per travalicare la propria sfera di ininfluenza, sia necessario un processo di unificazione (e maturazione) deve infatti fare i conti con le vecchie ruggini tra i leader dei vari partiti e con differenze di vedute non di poco conto. Innanzitutto la divergenza tra partiti indipendentisti veri e propri e partiti invece semplicemente autonomisti che propendono per una soluzione meno drastica che passa anche per la partecipazione al governo della Regione con forze politiche del centrodestra o del centrosinistra tradizionali. La collaborazione con i partiti italiani è il secondo rilevante punto di scontro, soprattutto in seguito alla scelta di partecipare alla giunta Pigliaru da parte di alcuni partiti indipendentisti tra cui l’IRS di Gavino Sale e il Partito dei Sardi di Franciscu Sedda.
A fine ottobre, i leader di quasi tutti i partiti dell’area si sono incontrati a Oristano al fine di intraprendere un percorso che porti all’unificazione, se non in un partito unico, per lo meno in un fronte comune di lungo respiro che possa presentarsi autonomamente alle elezioni regionali del 2019. Tutti i leader presenti al meeting hanno convenuto sulla necessità di trovare dei capisaldi sui quali convergere piuttosto che concentrarsi sulle differenze. «Non è possibile dare vita a un partito unico. Serve un sistema che sia alternativo a quello dominante e non collaborativo.» ha chiosato lo storico leader di Sardigna Natzione, Bustianu Compostu, «nessuna opposizione nel sistema, ma opposizione al sistema. No alleanze con i partiti italiani!».
«In Catalogna si è arrivati al referendum avendo il 90 per cento delle municipalità governate da forze indipendentiste», fa notare il leader di ProgRes Gianluca Collu, evidenziando quanto lavoro sia necessario fare per arrivare ai livelli dell’indipendentismo che ha travolto l’altra parte del Mar di Sardegna, ormai considerato un modello degli indipendentisti di mezza Europa.
Pur con tante difficoltà, il cammino dell’indipendentismo sardo potrebbe ripartire da basi nuove: le dirigenze dei partiti sono consapevoli del momento particolarmente propizio per ottenere successi elettorali che fino ad un decennio fa sarebbero stati semplicemente impensabili.

Roberto Davide Saba

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