– DI EMANUELE TANZILLI
emanuele.tanzilli@liberopensiero.eu

 

Per me non è semplice affrontare questo tema; non lo è mai stato, perché quando sono nato Enrico era già morto da tre anni e ho potuto soltanto ascoltare i racconti, leggere i documenti, e guardare i filmati. Ma tutto l’interesse, e anche qualche lacrima, che ancora oggi a distanza di trent’anni vedo scorrere, sono la testimonianza più efficace che potessi desiderare, sono la dimostrazione più tangibile di una passione mai sopita, e forse anche di un rimpianto mai completamente messo da parte.

Non è semplice perché il rischio di sentirsi inadeguati o non all’altezza è molto forte, però d’altro lato sono contento, perché un’occasione del genere ci ha consentito di trovare il coraggio di affrontare certi temi. Nell’ultima campagna elettorale, quella per le europee, qualcuno ha voluto speculare ignobilmente sul nome di Enrico Berlinguer, come se volesse rivendicarne un’appartenenza ideologica. Vedere Di Battista prendere in braccio Grillo per emulare Benigni e Berlinguer mi ha causato un rivoltamento di stomaco difficile da descrivere: siamo passati da un uomo di spettacolo che solleva un uomo di politica, a un portaborse che solleva un buffone. Quando Grillo si permette di dire che il Movimento 5 Stelle rappresenta l’eredità di Berlinguer, e una settimana dopo va a sedersi al tavolo con un nazionalista inglese di estrema destra scherzando e sorridendo come un vecchio comare, non solo insulta la storia di un partito, ma di un intero popolo!

Ecco quello che mi chiedo più spesso, praticamente ogni giorno. Dov’è andata a finire quella visione del mondo, quell’integrità umana, quella coerenza politica e morale? Che fine ha fatto quell’Italia in cui “una persona su tre vota comunista” del 20 giugno ’76? Com’è stato possibile che nell’arco di una generazione o due un patrimonio del genere sia stato dissipato a favore dei populismi, della demagogia, dei personalismi e dei conflitti d’interesse? Sono cinque anni che ci rifletto, ma la risposta che ho saputo trovare è unasola: è stata colpa nostra.

E’ stata colpa di una classe politica collusa e inadeguata, colpa della cultura del clientelismo e del chiudere un occhio quando non tutti e due. Colpa di un popolo accondiscendente, ammaliato dal mito berlusconiano dell’avere tutto e subito, ma anche e soprattutto colpa della sinistra. Non so se la scomparsa di figure di riferimento come Berlinguer o Pertini abbia privato quel determinato ambiente di un vincolo morale, sciolto il quale ci si è sentiti in diritto di fare ogni cosa. Fatto sta che la sinistra è diventata via via settaria invece che inclusiva, snob invece che umile, critica invece che costruttiva, e il risultato è che invece del bipolarismo abbiamo salvaguardato le larghe intese. Solo che, mentre prima parlavamo di questione morale e compromesso storico, adesso affrontiamo una questione storica con il compromesso morale. E non è proprio la stessa cosa, ve lo posso garantire. Non soltanto perché Renzi e Berlusconi non sono esattamente come Aldo Moro e Berlinguer, sarebbe troppo facile soffermarsi sulla singola persona; è il substrato culturale, la mentalità diffusa che si è inaridita progressivamente fino a seccare i suoi rami, perché ricordare è sacrosanto, ma è attraverso l’esempio che poi si nutre un’identità, e in questo gli ultimi trent’anni sono stati disastrosi.

Oggi la figura del politico è istintivamente associata al delinquente, al ladro, al peculato, alla distrazione di fondi pubblici e così via. Si finisce poi a penalizzare quelle mosche bianche, che forse sono poche ma che comunque ci sono, che affrontano realmente sacrifici e fanno realmente della propria vita una missione, così come fece Enrico. Penso ad Angelo Vassallo, penso ai sindaci che sfidano la criminalità a rischio della propria incolumità, ai tanti giovani mossi da una passione sana e pura, che purtroppo poi non è canalizzata in modo altrettanto sano e puro. Non sono gli esempi a mancare del tutto, è cambiato il modo di percepirli e di apprezzarli, se oggi una persona onesta e coerente finisce emarginata, priva di tutele e quasi nel biasimo, c’è da aspettarsi che lo stesso valga poi per tutte le altre.

Di questo si tratta, se vogliamo abbozzare un’analisi dell’eredità di Enrico. Da un lato l’incapacità di fare autocritica che è diventata ormai endemica di una certa sinistra per cui la colpa è sempre degli altri, che priva di ogni tensione verso la crescita, il miglioramento e il recupero di quell’identità operaista, pacifista e ambientalista; dall’altro la mancanza di stimoli anche in quelle stesse classi sociali che dovrebbero esserne direttamente coinvolte, fra i più deboli, fra gli esclusi, gli ultimi, fra i dimenticati. Ed è naturale che, se li dimentichiamo anche noi, poi non ci sarà nessuno a ricordarci.

Voglio sperare che quest’incontro possa essere stato in un certo senso catartico, che il ricordo di Enrico non resti un mero ricordo da appendere a qualche fotografia sbiadita, che ci aiuti a ritrovare il piacere del confronto, se necessario anche dello scontro, ma che in qualche modo sappia tornare a mobilitarci come quel milione di persone, il 13 giugno ’84 a Roma con il pugno alzato, e il capo chino per la commozione.

 

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