meritocrazia, giovani
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In questi giorni i media nazionali si sono scatenati nell’esaltare i giovani laureati in tempi record. La narrazione, contrapposta alla solita solfa sui giovani pigri e fannulloni, si è concentrata sulla capacità di questi studenti e studentesse di superare la noia dell’isolamento sociale dovuto alla pandemia. Questi toni trionfalistici in nome della meritocrazia fanno da contraltare alla quotidiana gogna a cui sono sottoposti i giovani italiani, rei di non accettare posti di lavoro con salari da fame, di impiegare troppo tempo a laurearsi e a trovare la stabilità economica. Ovviamente la fatica o forse la mancata volontà di fotografare la reale condizione giovanile in questo Paese impedisce di de-costruire il mito della meritocrazia, del “se vuoi, puoi”, in una società iper-competitiva che pretende ritmi serrati e performance impeccabili. 

Il mito della meritocrazia si scontra inevitabilmente con le difficoltà economiche della popolazione giovanile, dell’impossibilità di sostenere gli studi senza avere la certezza di un lavoro e delle conseguenze della competizione sulla salute mentale. I crescenti livelli di stress, ansia e depressione riscontrati fra gli studenti e i giovani italiani possono essere ricondotti all’eccessiva pressione scolastica e alla mancanza di prospettive per il futuro. D’altronde si cresce nella convinzione che la disoccupazione, la povertà o la dipendenza economica siano una colpa individuale, da imputare allo scarso impegno e all’incapacità di investire il proprio tempo e le proprie risorse adeguatamente. Basta fare un giro fra gli annunci di lavoro pubblicati online e rivolti a giovani stagisti non pagati, in cui viene descritto il candidato ideale. Quasi un essere mitologico, il candidato perfetto è laureato con il massimo dei voti, fluente in varie lingue, possiede già esperienze lavorative ed eccellenti conoscenze informatiche.

Si smonta così la narrazione sulla meritocrazia. Se per anni l’istruzione è stata indicata come la principale porta d’accesso a un lavoro dignitoso, oggi questa convinzione è stata smentita dalla precarietà e dagli elevati tassi di disoccupazione che si riscontrano anche fra i giovani neolaureati. Nonostante ciò, l’istruzione continua a essere invasa dalla logica della competizione e dalla cultura performativa, in cui solo i più meritevoli riescono ad ottenere un lavoro dignitoso e uno status sociale di tutto rispetto.

Purtroppo le diseguaglianze nel campo della formazione e dell’istruzione dimostrano quanto il successo scolastico (o capitale culturale) possa essere ricollegato al possesso di capitale economico e all’origine sociale. Il merito può dunque essere misurato a partire dall’aver conseguito titoli di studi in università e istituti prestigiosi ed estremamente costosi? È questa la meritocrazia tanto agognata, per cui i governi e le istituzioni politiche dovrebbero essere composti solo dai più esperti e meritevoli?

Come scrive Alessandro Sahebi su Instagram: «La reputazione sociale (o capitale simbolico), costruito con titoli di studio conseguiti in istituti prestigiosi, legittima l’idea che i dominanti debbano alle qualità personali i loro privilegi. Inoltre interiorizza in tutti gli altri la credenza che le élite meritino di più, maggiore riconoscimento e meritino di occupare le posizioni apicali del potere». Questo discorso ricorda la teoria del sociologo francese Pierre Bourdieu sulla riproduzione sociale e l’habitus, che vede nel sistema scolastico un modo di riprodurre i vantaggi di classe e la struttura sociale esistente. In questo senso l’istruzione non appare più come uno strumento per promuovere la mobilità sociale e la condizione dei giovani oggi lo dimostra.

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Fonte immagine: ilmessaggeroitaliano.it / Autore: Claudio Munoz

Inoltre quest’idea di meritocrazia non tiene in conto della salute mentale di coloro che vengono sottoposti costantemente alle logiche della competizione e ai suoi effetti sulle performance scolastiche. Abbandono scolastico, pensieri suicidi, autolesionismo e ritiro sociale fra i giovani possono essere spiegati dallo stress dovuto alla competizione e al continuo confronto sociale. Studi psicologici su questo tema evidenziano il lato oscuro della competizione, capace di aumentare la vulnerabilità allo stressalla depressione e all’ansia

L’elevata competizione può infatti causare insicurezza e una visione gerarchica di sé e degli altri, creando una vera e propria paura di essere rifiutati per via della propria presunta inferiorità o subordinazione. Prima della pandemia da COVID-19, i giovani italiani risultavano essere i più ansiosi d’Europa, secondo un rapporto dell’OCSE pubblicato nel 2017, mentre i dati ISTAT indicavano come nel 2019 ben 800mila giovani fra i 12 e i 15 anni affermassero di vivere una condizione di disagio rispetto alla propria vita, di non essere soddisfatti della vita familiare e affettiva. Nel 2020 è stato pubblicato anche il rapporto dell’OMS sulla salute fisica, le relazioni sociali e il benessere mentale degli studenti di 11, 13 e 15 anni provenienti da 45 paesi europei e il Canada. Questo studio mette in luce il numero crescente di giovani europei che presentano problemi di salute mentale: un adolescente su quattro afferma di sentirsi nervoso, irritabile e di faticare ad addormentarsi. Allo stesso tempo aumentano i giovani che si sentono schiacciati dai compiti e diminuisce la percentuale dei ragazzi che affermano di amare la scuola.

Una fotografia impietosa che evidenzia un disagio presente fin dall’adolescenza e che peggiora con l’accesso all’università e al mondo del lavoro. I dati raccolti negli Stati Uniti e nel Regno Unito parlano chiaro: il 20% degli studenti universitari americani soffrono di depressione, mentre il 78% degli studenti britannici afferma di aver sofferto di disturbi mentali nel corso del proprio percorso accademico.  

È forse arrivato il momento di abbandonare un’idea di meritocrazia poco aderente alla realtà e alle condizioni oggettive dei giovani d’oggi in un Paese in cui la possibilità di studiare diventa sempre più un privilegio e la disoccupazione dilaga anche fra i neolaureati. Aggettivi come pigri, fannulloni, choosy e mammoni potrebbero essere sostituiti da altri, come sfruttati, disoccupati e precari.

Rebecca Graziosi

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