Lettere in Soffitta questa settimana torna per un nuovo salto nel mondo degli Dei e dell’Olimpo, quando le divinità si macchiavano di sentimenti umani e gli uomini osano sfidare i propri demoni. Torna il teatro greco, con i suoi drammi e gli agoni, con l’esilarante commedia e la catartica tragedia. Si concludono così i tre appuntamenti dedicati alle colonne portanti della drammaturgia tragica: dopo aver analizzato l’Orestea di Eschilo e aver investigato il mito di Edipo tramite l’opera di Sofocle, andremo a smascherare gli intrighi ideologici del drammaturgo più discusso, tacciato di misoginia ma che faceva delle donne le sue tribolanti protagoniste. Andremo a leggere di Euripide che tratta la storia di Medea.

Euripide (480 – 496 a.C. ca) non si dedicò con particolare zelo alla vita politica, prediligendo l’otium intellettuale. Numerose sono le storie sul suo conto: come l’accusa di misantropia che lo avrebbe portato a costruirsi una grotta nella natia Salamina o il fatto che fosse tra i primi ad avere una biblioteca.

Ad un anno dalla morte di Eschilo, iniziò la sua carriera di tragediografo: era il 455 a.C. e non riscosse troppo successo. Le rampanti idee sovversive che animavano il suo teatro erano al di sopra delle tradizionali aspettative del pubblico: trame sempre più esasperate, colpi di scena, il momento del riconoscimento per sbrogliare l’intreccio, l’arrogante insinuarsi della Fortuna nel destino dei personaggi, ormai al limite tra commedia e tragedia. Queste novità saranno riprese e migliorate nella successiva commedia menandrea, insieme all’introduzione del prologo espositivo e all’uso di nuove tecniche sceniche come la monodia e il deus ex machina (l’intervento esterno che mettesse un punto alla storia). Euripide non si preoccupa di sollevare una morale sentenziosa sui propri personaggi; quello di cui ha premura è afferrare le angosce e le paure umane che portano spesso alla contraddizione e indagare, così, nel profondo la psicologia che loro attanagliano e plasmano.

In pochi anni, tra il 431 e il 428 a.C., Euripide compose due delle sue tragedie più iconografiche: la Medea e l’Ippolito, passato alla tradizione per la sua versione che vede la tragedia al femminile nella figura di Fedra.

Tessitrice inalienabile della propria trama è Medea stessa: è la storia della sua vendetta ma anche una profonda critica all’istituzione della famiglia. Lei risulta sublime, secondo la maniera di Euripide: esagerata, passionale, mossa da istinti elementari e altalenante tra diversi stati d’animo.

Dopo aver aiutato Giasone a conquistare il vello d’oro e aver abbandonato la patria per lui, la donna viene ripudiata dal giovane che le preferisce la figlia di Creonte, re di Corinto. Furiosa e disperata, Medea si lamenta della sua condizione davanti al coro di donne corinzie che cominciano a sospettare l’inevitabile. Lei, abile nell’arte della dissimulazione, riesce ad eludere ogni sospetto e ad ottenere un ultimo giorno di soggiorno da Creonte, che risulterà fondamentale per attuare il suo piano. Uscito di scena il sovrano, lei ammetterà al coro che prima della sua dipartita ben tre dei suoi nemici farà cadaveri.

La ρἧσις fondamentale è tra Giasone e Medea, durante la quale, gli vengono rinfacciati il tradimento e i benefici da lei ricevuti e lui, cinicamente, le apporta motivazioni socialmente convenzionali. D’altronde ad Atene una donna si poteva definire moglie solo se madre di figli legittimi e godevano di legittima cittadinanza solo i figli di entrambi i genitori ateniesi.

Per me, se uno ha la lingua pronta ma non è un uomo giusto, merita la più dura delle pene; perché crede di nascondere i misfatti con le parole ed è capace di qualunque cosa. Ma non sempre vi riesce.” (vv.  580-583)

Dopo aver finto una riappacificazione, invia, come dono per le future nozze, una ghirlanda ed una veste alla novella sposa: essendo avvelenate, la fanciulla muore indossandole, tra mille tormenti. Da lì a poco, il doloso regalo miete un’altra vittima: il re accorso in aiuto della figlia. A quel punto è giunto il momento del gran finale: col cuore straziato, Medea uccide i propri figli per infliggere  a Giasone il più tremendo dei dolori e la più subdole delle offese, l’impossibilità di una discendenza.

 “Com’è dolce questo abbraccio e tenera la pelle e soave il respiro dei miei figli. Andate, andate via; non posso più guardarvi […]. So quanto male sto per fare ma la passione dell’animo è più forte in me della ragione.” (vv. 1071-1080)

Con un’uscita trionfale degna di un dio, Medea saluta la scena guidando il carro del Sole, sua stirpe genitrice. Con un’eroina tale la tragedia diventa femminile. L’offensiva condizione di barbara e straniera; lo status sociale negato attraverso un giuramento infranto; un amore soppresso e ridotto ad un’effimera parentesi passionale; un nucleo famigliare soffocato prima ancora di essere riconosciuto: questa è la tragedia di Medea, come di ogni donna artefice del proprio destino e giudicata per questo; non più padrona della propria felicità perché schiacciata da una società antropocentrica.

Non a caso il monologo di Medea del primo episodio diventerà simbolo della lotta femminista, a cominciare dal movimento delle Suffragette inglesi sul finir dell’800.

 “Di tutti gli esseri viventi che hanno intelligenza, noi donne siamo gli esseri più infelici; prima di tutto bisogna che noi con eccesso di ricchezza compriamo uno sposo, come anche padrone del corpo: […]per le donne non sono onorevoli i divorzi, né è possibile ripudiare lo sposo. E dicono che noi viviamo in casa una vita senza rischi, mentre quelli combattono con la lancia;ma si sbagliano, perché tre volte sarei disposta a stare presso lo scudo piuttosto che partorire una volta sola.” (v. 230 ss.)

Pamela Valerio

 

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