Rifiuti di plastica sul fondo dell'oceano.
La plastica negli oceani minaccia il nostro pianeta. Fonte: istockphoto.com

L’isola di plastica, così viene definita la Great Pacific Garbage Patch, un’estesa regione di accumulo di rifiuti situata nell’oceano Pacifico, al largo del Cile e del Perù, le cui misure non sono ancora definite: le stime vanno da 700mila km² fino a più di 10 milioni di km² (cioè da un’area grande quanto la Spagna a un territorio persino più esteso della superficie degli Stati Uniti), ovvero tra lo 0,41% e il 5,6% dell’Oceano Pacifico. Ma non è l’unico caso: sono numerose infatti le discariche di rifiuti galleggianti accumulatesi nel tempo nei mari e negli oceani di tutto il mondo. L’inquinamento da plastica negli oceani costituisce uno dei problemi ambientali più urgenti e devastanti del nostro tempo. Le conseguenze di questo fenomeno sono enormi, colpendo la vita marina, la salute umana e l’ecosistema globale. Ma tale questione dall’evidente portata non sembra comunque toccarci completamente, a tal punto da non suscitare perlopiù alcun tipo di emozione o interesse nelle persone: rabbia, paura, tristezza, nulla: forse perché siamo troppo distanti per prenderne totalmente coscienza, o forse troppo distratti e alienati per rendercene realmente conto.

Già nel 1957 il semiologo e linguista francese Roland Barthes, nel suo celebre saggio Mitologie, sosteneva profeticamente che “il mondo intero può essere plastificato, perfino la vita”. In un contesto consumistico di industrializzazione e iperproduzione, la plastica è diventata un materiale onnipresente nella nostra società. Il chimico inglese Alexander Parkes non poteva di certo immaginare gli effetti a lungo termine della sua invenzione, quando, tra il 1861 e il 1862, brevetta il primo materiale plastico semisintetico, inizialmente con il nome di Parkesine. Ma è dagli anni 50 del Novecento che con l’invenzione del moplen dell’ingegnere italiano Giulio Natta (premio Nobel per la chimica nel 1963), che la plastica trova diffusione planetaria, irrompendo nella vita quotidiana di tutti. La sua versatilità, leggerezza e durata l’hanno infatti resa una scelta ideale per una vasta gamma di prodotti di consumo, dall’imballaggio alimentare agli elettrodomestici, dai giocattoli agli abiti. Tuttavia, questa stessa duttilità ha portato a un uso eccessivo e spesso irresponsabile della plastica. Basti pensare che il consumo di tale materiale è esploso nel corso degli ultimi decenni, raggiungendo nel 2019 una produzione di circa 368 milioni di tonnellate di plastica, un dato che, secondo stime recenti, è destinato a crescere.

Gli oceani della Terra, con la loro vastità e profondità sconfinate, sono l’habitat di una straordinaria varietà di creature marine, contribuiscono in modo significativo alla regolazione del clima globale e forniscono sostentamento a miliardi di persone. Le attività umane come lo smaltimento inadeguato dei rifiuti, permettono a enormi quantità di plastica di finire nei sistemi fluviali che sfociano poi nei mari e negli oceani. Oltre all’abbandono diretto e incontrollato, la plastica può per di più essere trasportata dagli scarichi delle navi, dalle attività di pesca e da eventi meteorologici estremi.

Quando parliamo di plastica (composta da monomeri che vengono uniti attraverso dei processi chimici per formare polimeri di plastica) ci riferiamo a un materiale derivato da fonti di petrolio, che dunque comporta l’estrazione e il raffinamento di combustibili fossili, con conseguente rilascio di emissioni di gas serra. Si tratta di uno dei materiali più durevoli che l’uomo abbia mai creato: possono volerci centinaia di anni (circa 600) prima che la plastica si degradi, e la ricerca sta vagliando la possibilità che questo processo non avvenga completamente. Una volta che la plastica raggiunge gli oceani, inizia un lungo e dannoso viaggio. Attraverso un processo di fotodegradazione, il sole, il vento e le azioni meccaniche dell’acqua rompono la plastica in frammenti sempre più piccoli, noti come microplastiche e nanoplastiche. Queste particelle possono misurare meno di 5 millimetri e sono praticamente invisibili a occhio nudo. A causa delle loro dimensioni ridotte, che rendono oltretutto difficile la loro raccolta, possono essere ingerite da organismi marini di varie dimensioni, compresi piccoli pesci, zooplancton, balene, fino ad arrivare a organismi marini alla base della catena alimentare, raggiungendo così anche gli esseri umani. La ricerca sugli effetti a lungo termine delle microplastiche è ancora in corso, ma è evidente che rappresentano una minaccia crescente per la salute degli oceani e della vita che essi ospitano. Ma l’aspetto preoccupante è che molti animali marini tendono a confondere i rifiuti con il cibo, rimanendo spesso intrappolati o avvolti nella plastica, causando lesioni gravi o letali. Tale materiale, inoltre, assorbe sostanze tossiche dall’acqua circostante e può rilasciarle nel corpo degli animali che la ingeriscono.

La lotta contro l’inquinamento da plastica negli oceani ha portato all’emergere di tecnologie innovative, tra cui il “The Ocean Cleanup,” un progetto fondato da Boyan Slat nel 2013. Il progetto utilizza una barriera galleggiante per raccogliere passivamente rifiuti di plastica dagli oceani, sfruttando le correnti marine per concentrare la plastica in un’area specifica per poi essere rimossa e riciclata. Sebbene non si tratti certamente di una soluzione radicale, questa iniziativa rappresenta ad ogni modo un passo avanti nella lotta contro l’inquinamento da plastica negli oceani, una questione globale che richiede una risposta unanime da parte di nazioni, organizzazioni ambientali e aziende di tutto il mondo. In tal senso, molti Paesi hanno introdotto divieti o restrizioni sull’uso di sacchetti di plastica monouso e su prodotti di plastica usa e getta come cannucce e piatti in virtù di normative più rigorose sullo smaltimento corretto dei rifiuti.

Il “Plastic Pollution Partnership” (PPP) è un esempio di iniziativa globale che riunisce governi, aziende e organizzazioni non governative per affrontare l’inquinamento da plastica a livello internazionale. La collaborazione tra nazioni risulta infatti necessaria affinché si riduca l’ingresso di plastica negli oceani e per sviluppare soluzioni sostenibili. Ma degli elementi irrinunciabili affinché questa lotta dia risultati concreti son un’educazione e una sensibilizzazione continue. È fondamentale che le persone comprendano gli impatti della plastica sugli oceani e sulla vita marina, nonché il ruolo che ognuno può svolgere per ridurre questo problema.

La legislazione, il riciclo, le tecnologie innovative e la collaborazione globale stanno contribuendo a mitigare questa crisi. È fondamentale che ciascuno di noi s’impegni nel proprio piccolo per ridurre l’uso della plastica, riciclare correttamente e sostenere le iniziative che combattono l’inquinamento. Tali azioni possono essere realizzate solo attraverso un impegno globale che miri a una maggiore sensibilizzazione ecologica e a una rinnovata concezione di cura in quanto esseri interdipendenti e relazionali inseriti in un ambiente, una condizione che richiede irrimediabilmente una responsabilizzazione. Dunque, solo attraverso un impegno coeso, un movimento concreto e collettivo, sarà possibile proteggere i nostri preziosi oceani e garantire un futuro sano per chi verrà.

Mena Trotta

Classe 2001, laureata in filosofia e studentessa di antropologia culturale ed etnologia all'università di Bologna. Mi nutro di curiosità, fotografia e parole. Fermamente convinta del potere sovversivo dell'arte, in ogni sua forma.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.