Definire con chiarezza una data in cui prese vita il Simbolismo non è possibile. Si trattò inizialmente di un movimento letterario, che presto finì per sfociare in altri campi dell’arte, pittura e musica su tutti. Sicuramente nacque in Francia intorno alla metà dell’Ottocento e lì, prima di diffondersi nel resto del continente europeo, trovò terreno fertile per espandersi e farsi strumento di esponenti tra i più grandi della poesia ottocentesca. Si può dire che esso nacque sulle orme del Romanticismo, di cui condivideva un’enfatizzazione quasi mistica delle emozioni.
Spesso si tende a fissare come data di nascita del Simbolismo il 18 settembre 1886, quando il poeta Jean Moréas pubblicò sul Le Figaro un articolo intitolato Le Symbolisme, che venne fin da subito ritenuto il manifesto della nuova corrente di pensiero. In esso venivano delineati i tratti simbolisti principali, ma “soltanto” in questo risiede la sua importanza: nel fatto, cioè, di aver definitivamente attribuito al Simbolismo una volontà programmatica, una carta d’identità. Per il resto, quando l’aricolo di Moréas venne divulgato, era già da alcuni decenni che, seppure ancora lontane dalla celebrità, le penne simboliste rilasciavano il loro potente inchiostro sui fogli di mezza Europa. Una su tutte fu quella di Charles Baudelaire, che già nel 1855 aveva dato alla luce la prima pubblicazione della raccolta di poesie forse più importante e influente di tutto il XIX Secolo: I Fiori del Male.

Charles Baudelaire (fonte:libriantichionline.com)

Nonostante non avesse alcuna pretesa a riguardo (Baudelaire aveva una concezione molto personale e autoriferita della propria esistenza), I Fiori del Male finì presto per diventare il riferimento letterario (e umano) di tutta una nuova scuola di poeti che ne rimasero troppo affascinati per non seguirne le impronte stilistiche. Lì dentro, fin dal titolo, è infatti possibile rintracciare tutte le fondamenta su cui si ergerà la poetica simbolista: i fiori, certo… Ma del male. Bellezza e sofferenza in simbiosi. Cose che non sono mai come appaiono e che nascondono dei significati reconditi, da ricercare e cogliere attraverso l’intuizione, unica alternativa valida a una noia esistenziale (Spleen) che troppo spesso riesce a spegnere la vitalità negli uomini. Si tratta quindi di una concezione decadente dell’esistenza che in letteratura prende il nome di Decadentismo e che rappresenta una sfaccettatura del Simbolismo spesso ed erroneamente considerata distaccata da esso. Difatti allo Spleen Baudelaire contrappone un ideale (Idéal), a cui ambire eternamente e in maniera ostinata. È un ideale fatto di serenità, purezza, contentezza. Un locus amoenus dove finalmente godere della vita senza riserve e scrollarsi di dosso l’ossessione del ticchettìo del tempo. Un’oasi di totale armonia e tuttavia così immaginaria da poter soltanto essere bramata. Mai davvero raggiungibile. Eppure, nonostante la piena consapevolezza di non poterla possedere, l’uomo non può che tentare di farlo, per tutta la sua esistenza. Poichè in questo risiede la sua natura maledetta.

“Alle spalle le noie e i molti dispiaceri
che gravano col loro peso sulla grigia
esistenza
felice chi può con un colpo d’ala vigoroso
slanciarsi verso campi luminosi e sereni”

(da Èlévation, I Fiori del Male, Charles Baudelaire)

Nella crepa di questa sensazione di impotenza brulicava tutta l’angoscia esistenziale di Baudelaire e di chi come lui percepiva forte dentro di sé l’ambizione di voler spremere la vita per poterne ricavare un nettare sufficiente a placare la propria sete. Paul Verlaine, Stéphane Mallarmé, Arthur Rimbaud e tanti altri. L’esigenza di questa nuova scuola di artisti era quella di rifiutare ogni canone ed esaltare, a qualunque costo, la propria visione del mondo come se sulle sue spalle gravasse un incarico per conto dell’umanità che in pochi sono in grado di affrontare e compiere.
Sregolare il proprio vissuto e i propri sensi, cercare l’eccesso, volare con ogni mezzo possibile al di sopra del realismo descrittivo e dell’oggetività, esplorare il mondo dei sogni e i desideri dell’inconscio. Da qui nasce la fascinazione verso i piaceri immondi, le droghe, e l’alcool, strumenti che favoriscano sensazioni dilatate, visioni nuove e stupefacenti, idee incontaminate dalla razionalità. Nessun intento civile o morale, nessuna indagine delle problematiche sociali. Ciò che conta viene molto prima (o molto dopo) della società in cui si vive.
La poesia, in questo senso, col Simbolismo diventa mezzo per trascendere gli stenti quotidiani ed esprimere la fatica di vivere e l’indispensabile evasione dell’anima verso mondi lontani dove regna l’armonia andata persa nella realtà irrimediabilmente fagocitata dalla noia.

Nuvole di Fiori, Redon (fonte: settemuse.it)

Per farlo era necessario un linguaggio nuovo, che si affrancasse da ogni norma e dovere. Il verso divenne spesso libero, i componimenti si arricchirono di enjembements e strumenti che favorissero un ritmo poetico in perfetta sintonia con il flusso interiore di chi scriveva e divennero protagoniste le figure retoriche: mezzi perfetti coi quali mettere in relazione oggetti e sensazioni comunemente considerate distanti anni luce fra loro. Analogie, metafore, ossimori e sinestesie. Attraverso di loro il poeta riesce a esprimere le più astruse corrispondenze che lui intuisce e scorge come lucine nella nebbia del quotidiano. E lo fa non spiegandole, dato che nemmeno lui è in grado di comprenderle (quel maledetto e inafferrabile idéal…). Lo fa provando ad evocarle coi suoni, con associazioni di idee e campi semantici che possano sconvolgere e risvegliare qualcosa in qualcuno fra coloro che leggono.
Interpretazione e sensazione diventano allora le parole chiave: chi pensa di leggere una poesia di Baudelaire, di Rimabud o di Mallarmé con la pretesa di capirla sta rincorrendo il coniglio sbagliato. Non esiste via razionale che conduca al nocciolo di questa poesia. Ciò che è possibile fare è soltanto abbandonarsi al flusso di immagini che gli incastri suggeriscono e lasciarsi trasportare verso l’ignoto.

“Ma perché rimpiangere un eterno sole, se siamo impegnati nella scoperta della chiarità divina”
(da Adieu, Arthur Rimbaud)

Ciò che interessava ai simbolisti non era un sole comune, con la “s” minuscola e da tutti visibile. Perché doveva esserci una fonte di luce più autentica, una chiarità divina da scovare, oltre il pallido scorrere del tempo e delle stagioni della vita. Non poteva essere tutto lì.
Com’è possibile che ogni cosa comunichi solamente se stessa?
Nelle nottate più visionarie, le anime ebbre dei simbolisti riuscivano a scorgere il dialogo fra le cose. Mondi perfetti e incontaminati dove era possibile sentire tutto e, se non conoscere l’assoluto, perlomeno percepirne la presenza. Dallo scontro violento di quei mondi con il putrido ristagnare della noia quotidiana finirono per nascere le poesie più potenti di tutto l’Ottocento.

Il poeta è come quel principe delle nuvole,
che snobba la tempesta e se la ride dell’arciere
poi, in esilio sulla terra, tra gli scherni
con le sue ali da gigante non riesce a camminare”

(da L’Albatros, Charles Baudelaire)

Daniele Benussi

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