Si chiama “Ramo d’ulivo” ma della pace non ha nulla. Anzi, è un vero e proprio massacro, non una semplice operazione militare. È la guerra che Erdoğan sta, ancora una volta, portando avanti contro i curdi, colpendo questa volta il cantone di Afrin in Siria.

È iniziata sabato 20 gennaio ed è ancora in corso: da tre giorni i curdi di Afrin sono bombardati dai jet turchi. Da allora la Turchia ha dichiarato di aver colpito «100 postazioni nemiche» e di prepararsi anche all’ingresso nella città via terra, sul quale però non si hanno ancora notizie certe. Certo è che si tratti di una delle zone ormai sicure e stabili della Siria.

Nel frattempo i curdi di tutto il mondo si preparano alla resistenza: ad Afrin, dove anche la popolazione è determinata a resistere, e nel resto d’Europa, dove numerose mobilitazioni sono state indette di fronte le ambasciate della Turchia.

Ma chi sono i curdi di Afrin?

Afrin è uno dei quattro cantoni del Rojava, la regione siriana a maggioranza curda da essi controllata a partire dalla guerra in Siria. Fa parte di quella lunga striscia di terra, cui tutti si riferiscono come Siria del nord, ma che per i curdi non è altro che il Kurdistan occidentale.

Afrin si trova poco a nord di Aleppo e non lontana da Kobane e Manbij, altri due cantoni controllati dai curdi. In mezzo c’è Al-Bab, la città conquistata dalla Turchia a seguito dell’operazione “Scudo dell’Eufrate”, lanciata ufficialmente per sconfiggere l’ISIS, ma in fondo non molto diversa, negli scopi, da quella che si sta svolgendo nelle ultime ore.

curdi afrin turchia

Afrin è quindi uno dei tanti luoghi della resistenza curda, dove le milizie dello YPG (Unità di protezione popolare) e dello YPJ (Unità di protezione delle donne) difendono la popolazione e la SDF (Forze Democratiche Siriane) controlla il territorio, mentre si cerca di dare vita al progetto di confederalismo democratico e di garantire una vita normale in tempo di guerra. Come detto in queste ore dal Congresso Nazionale del Kurdistan:

«Afrin è stata una delle regioni più stabili e sicure della Siria negli ultimi cinque anni. In tale contesto, la città ha accolto un numero di sfollati interni pari alla propria popolazione originale. Le Nazioni Unite e la Coalizione Internazionale devono assicurare il permanere della stabilità e della sicurezza di Afrin. Afrin deve essere protetta da attacchi esterni.»

Si tratta quindi di un luogo considerato ormai stabile, dove l’ISIS era stato completamente respinto. Un posto che proprio fino al giorno prima dell’attacco della Turchia era presidiato, ai suoi confini, dalle truppe della Russia, che ne avrebbero dovuto «garantire la sicurezza» e che, secondo fonti curde, si sarebbero ritirate proprio il giorno prima dell’attacco. Il Ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, tuttavia, pare abbia smentito questo avvenimento.

Perché allora la Turchia li sta attaccando?

Difficile stupirsi per l’attacco indiscriminato della Turchia ad un cantone del Rojava. Le posizioni di Erdoğan nei confronti della popolazione curda sono conosciute e si sono concretizzate nella vera e propria guerra interna che ormai da anni si sta svolgendo a sud della Turchia, nei territori a maggioranza curda. Questa è dunque soltanto un’altra direzione in cui il massacro della popolazione curda si concretizza.

Binali Yıldırım, il Primo Ministro della Turchia, ha dichiarato che «L’operazione ad Afrin ha come obiettivo quello di porre fine alla atrocità delle organizzazioni terroristiche del Pkk, del Pyd, delle Ypg e di Daesh».

Un’affermazione che il fronte curdo ribalta: in quei territori Daesh non esiste più e il vero obiettivo della Turchia è infrangere il sogno di liberazione curdo. Un sogno che si sta pericolosamente concretizzando nella costruzione del Rojava e che Erdoğan tenta a più riprese di stroncare. Prima con l’operazione “Scudo dell’Eufrate” e adesso, in modo ancora più eclatante, colpendo Afrin e la sua popolazione.

Fra i morti, infatti, numerosi sono i civili: per ora si parla di almeno 17 morti (fra cui anche 7 bambini) e 28 feriti. Numeri che sono in costante variazione.

La comunità internazionale davanti all’attacco di Afrin

Qualcuno dice che non stupisce neanche il (quasi) silenzio internazionale sulle vicende di questi giorni. Ma non si può fare a meno, ogni volta, di rimanere delusi e tristemente stupiti dalla reazione della comunità internazionale, che non ha parole di condanna per ciò che sta succedendo, ma soltanto silenzio.

Il Ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian, pare essere l’unico ad essersi espresso, sollecitando la convocazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU:

Anche la stampa mainstream è sulla stessa linea d’onda e la notizia dell’attacco ad Afrin non è che una delle tante, non diventa un hashtag popolare su Twitter (com’è successo per #SaveAleppo) e non scatena nessuno “sdegno ad orologeria” (come spesso accade per alcuni episodi di questa guerra).

Del resto, l’attacco ad Afrin rientra nella più grande questione della guerra in Siria e del futuro del Medio Oriente in generale. Una situazione, quella che si sta verificando, già prevedibile ai tempi dei colloqui di Astana, quando nei negoziati per la pace le forze curde erano state deliberatamente escluse.

Sarà difficile, infatti, far sì che la pace in Siria passi attraverso il mantenimento della regione del Rojava così com’è adesso. Erdoğan e Assad sono entrambi contrari alla creazione di una zona di influenza curda e la Russia è la prima l’interlocutrice di questi due attori. Un triangolo che terrebbe comodamente fuori gli Stati Uniti, che non a caso sono coloro che fino ad ora hanno sostenuto la lotta dei curdi. Una situazione densa di intrecci, ma che non preclude a ribaltamenti e nuove alleanze.

«La nostra unica opzione è la resistenza», ha dichiarato la co-Presidente del governo cantonale di Afrin, Hevi Mustafa. E i curdi di tutto il mondo lo ripetono.

 

Elisabetta Elia

2 Commenti

  1. VICENZA SI SOLLEVA…ANCHE PER IL POPOLO CURDO
    (Gianni Sartori)

    Anche se sostanzialmente fu una sconfitta, la lotta del popolo vicentino contro la realizzazione dell’ennesima base statunitense, il movimento “NO Dal Molin”, non è stato invano.
    Oltre a un degno passaggio di testimone con le lotte degli anni sessanta (vedi 19 aprile 1968 a Valdagno) e degli anni settanta (vedi la “breve estate” dell’Autonomia che ha incendiato le praterie dell’Alto Vicentino) ha rappresentato la prosecuzione, con altri mezzi, di quella Resistenza antifascista per cui la “Città del Palladio” è stata insignita di medaglia d’oro. L’altra medaglia, la prima, era per l’insurrezione del 1848.
    Nelle manifestazioni contro il Dal Molin (legittimo definirle “oceaniche”, talvolta) si riversarono le energie e le esperienze sia dei soggetti e dei collettivi legati ai centri sociali (Ya Basta!), sia di alcune formazioni “classiche” (per quanto ridotte ai minimi storici) come Rifondazione (erede a Vicenza sia del PCI che di DP) o il PDAC (Quarta Internazionale) i cui militanti costituirono il Comitato di Vicenza Est. Oltre, naturalmente, ai pacifisti, ai Cristiani per la Pace, alle Donne, agli ambientalisti…ai cani sciolti.
    Anche recentemente, 26 gennaio 2018, abbiamo potuto toccare con mano che la lotta continua. Continua nonostante decenni di Democrazia cristiana (Rumor e suoi eredi) e poi anni di fascioleghismo (v. Hulwek), nonostante la presenza di una rampante (leggi: aggressiva, impietosa) Confindustria ai primi posti nella classifica nazionale (la seconda in Italia, credo, sia per profitti che per devastazioni ambientali).

    Un passo indietro.
    E’ ormai arcinoto che da decenni il Veneto in generale e Vicenza in particolare forniscono lo scenario ottimale per esercitazioni militari e repressive: un grande laboratorio a cielo aperto.
    Già in passato, anni novanta, si ipotizzava sulla presenza di soldati turchi (in particolare piloti), magari proprio in coincidenza con fasi di recrudescenza repressiva nei confronti dell’opposizione popolare e di quella curda in particolare.
    Agli occhi attenti e vigili dei Centri Sociali del Nord Est non era quindi passata inosservata la presenza di militari turchi ai tre giorni di “addestramento sui flussi migratori” presso la sede della Gendarmeria europea. Ufficialmente in qualità di “osservatori”. Un segnale preoccupante, quantomeno, nei giorni in cui l’esercito e l’aviazione di Ankara stavano (e stanno) massacrando civili inermi nel cantone curdo di Afrin nel nord della Siria. Così come due anni fa avevano fatto terra bruciata delle città curde del Bakur (la regione curda sottoposta all’amministrazione turca) collezionando una lunga lista di violazioni dei Diritti umani nei confronti della popolazione.

    E i giovani militanti non sono rimasti a guardare.

    Questo il comunicato diffuso la sera stessa del 26 gennaio 2018 in merito alla loro iniziativa:

    “La Jendarma Turca, responsabile di uccisioni indiscriminate, torture e rappresaglie contro i civili nel Kurdistan Bakur è tra gli osservatori internazionali della Gendarmeria Europea (Vicenza, Caserma Chinottto), dove oggi termina una tre giorni di addestramento sui contenimenti dei flussi migratori. Un centinaio di attivisti di dei centri sociali del nord-est e di Ya Basta Edi Bese hanno, questa sera, sanzionato dal basso la sede della Gendarmeria Europea. Nel giorno dell’anniversario della liberazione di Kobane si è voluta manifestare la nostra solidarietà attiva con il Kurdistan che resiste! Defend Afrin! Erdogan Terrorist!”

    Va anche detto che nel vicentino i precedenti non mancavano. Basti ricordare l’inquietante voce che nel gennaio 1997 circolava insistentemente alla caserma Ederle di Vicenza (Nato). Si parlava della tragica morte di un pilota turco autore di qualche piccolo furto all’interno della caserma stessa, poco prima di Natale. Colto sul fatto, era stato immediatamente rispedito in Turchia e qui sarebbe stato addirittura fucilato. Non risulta ci sia mai stata una conferma ufficiale, ma la vicenda comunque forniva un’ulteriore testimonianza sulle violazioni dei diritti umani da parte della Turchia. Ma quella volta c’era anche di più. Indirettamente confermava quanto si sospettava da tempo: nelle basi Nato in territorio italiano – da Ghedi all’aeroporto “Dal Molin” – i piloti turchi prendevano lezioni sull’uso di velivoli, in particolare di elicotteri. Dello stesso tipo (ad esempio gli Apaches) di quelli utilizzati nel Kurdistan “turco” (Bakur) per distruggere villaggi e accampamenti curdi.
    Per analogia va ricordato anche un altro episodio, risalente a una decina di anni prima, anche se in questo caso si trattava di militari iracheni e non turchi.
    Lo spettacolare incidente mortale di Fongara – nell’Alto Vicentino presso Recoaro – portò a conoscenza dell’opinione pubblica il fatto che i piloti iracheni, all’epoca impegnati nella guerra con l’Iran (ma anche costantemente contro i curdi) si addestravano in Italia con il supporto logistico delle basi Nato. L’elicottero in questione finì contro la parete di una montagna a causa della nebbia e l’intero equipaggio, tutti militari iracheni, perì nell’incidente. Allora si disse che erano diretti in qualche fabbrica di elicotteri nel “nord-ovest” per installare nuovi marchingegni elettronici e impratichirsi nell’uso. Erano arrivati dall’Iraq facendo tappa nelle varie basi Nato dislocate lungo il percorso.

    Nel 1997, “grazie” all’incauto pilota e alla severità dell’esercito turco, diventava lecito sospettare che sui velivoli Apache e Shinook (quelli che all’epoca sorvolavano quasi quotidianamente anche il quartiere di San Pio X) si stessero esercitando i piloti che poi avrebbero bombato le popolazioni curde.
    Dalla spettacolare denuncia operata oggi, 26 gennaio, dai militanti dei Centri sociali emerge anche una considerazione: il fatto che la Turchia sia legata da una formale alleanza militare all’Italia e agli altri paesi della Nato non può costituire un alibi per tollerare complicità e connivenza con l’attuale politica repressiva (e nei confronti dei curdi anche genocida) del regime di Erdogan.

    Gianni Sartori

  2. COME NEL GENNAIO 2013, ALTRI TRE CURDI ASSASSINATI A PARIGI

    Gianni Sartori

    Tra pochi giorni cadeva il decimo anniversario dell’uccisione di tre femministe curde a Parigi.

    Sakine Cansiz, Fidan Dogan e Leyla Saylemez erano state assassinate nel gennaio 2013 in un’operazione in cui appariva scontato intravedere l’operato del MIT (i servizi segreti turchi). Ipotesi poi confermata dai continui rinvii del processo e dalla morte in carcere (alquanto opportuna per evitare ulteriori indagini) dell’attentatore (un turco infiltrato).

    Il 23 dicembre 2022, la cosa si è ripetuta e altri tre militanti curdi (ma il bilancio potrebbe aggravarsi) sono caduti sotto i colpi esplosi da un francese già noto per due aggressioni di matrice razzista.

    La sparatoria mortale è avvenuta in rue d’Enghien, in un quartiere di forte presenza curda, nei pressi di di un Centro culturale curdo dedicato alla memoria di Ahmet Kaya*.

    Il responsabile dell’eccidio sarebbe un ferroviere (secondo un’altra versione un autista di autobus) in pensione di 69 anni, già conosciuto come responsabile di due tentati omicidi risalenti al 2016 (quando aveva accoltellato una persona in casa sua) e al 2021. In questo caso si trattava di un reato con implicazioni razziste avendo assalito un bivacco di migranti (nel 12° arrondissement di Parigi).

    L’immediato raduno di cittadini curdi aveva generato una serie di proteste dato che in molti sospettano che anche in questo tragico evento vi sia la longa manus – e lo stile -dei servizi turchi.

    La contestazione si è conclusa con scontri, tafferugli e incendi (oltre all’impiego massiccio di lacrimogeni) tra manifestanti e polizia. Per il 24 dicembre è stata indetta una grande manifestazione contro l’ennesima aggressione alla comunità curda.
    Da più parti si è insistito nel sottolineare i “problemi psichici” dell’attentatore, parlando di “lupo solitario”. Ma per la comunità curda, chiunque abbia premuto il grilletto, è quasi scontato che anche queste uccisioni rientrino nella “guerra sporca” contro i curdi portata avanti ormai da anni da Ankara.

    Gianni Sartori

    nota 1: Morto a Parigi nel novembre 2000 a soli 43 anni, Ahmet Kaya è ricordato sia come artista dissidente che in quanto difensore della causa curda. Apostolo della “musica autentica”, nonostante la grande notorietà, volutamente si mantenne estraneo alla Società dello spettacolo, alla mercificazione della musica. Le sue canzoni, i suoi testi ricordano quelli di Victor Jara e di Joan Baez. Come loro si rivolgeva “non solo ai sentimenti, ma anche all’intelligenza delle persone”,

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