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Fonte: Reuters UK

Dopo settimane di passione, iniziative di pace più o meno interessate e titubanze, incertezze, passi avanti e passi indietro da parte dei più svariati attori internazionali (tra cui l’Italia), la stessa padrona di casa, la cancelliera tedesca Angela Merkel, ha detto che la Conferenza di Berlino è stata solo un nuovo, piccolo passo avanti per la soluzione della crisi in Libia e non un incontro pienamente risolutivo: «Non abbiamo risolto tutti i problemi, ma tutti hanno collaborato in modo costruttivo», ha dichiarato infatti Merkel alla stampa a fine vertice.

Cosa ci si attendeva dalla Conferenza di Berlino sulla Libia

In effetti, come ha segnalato l’ISPI qualche giorno fa, la Conferenza di Berlino serviva più per fare incontrare gli attori internazionali esterni al conflitto Sarraj – Haftar, piuttosto che all’arrangiamento di un accordo duraturo per la stabilizzazione della Libia. Il gran numero di potenze regionali e mondiali presenti al vertice, del resto, non ha mentito su questo punto: dall’Algeria all’Egitto, dalla Turchia alla Russia, dalla Germania alla Francia agli Stati Uniti fino all’Italia, tutti hanno trovato posto al tavolo, in ragione del loro status interessato all’evoluzione della crisi in Libia. La Conferenza di Berlino era stata pensata proprio come un confronto tra gli agitatori esterni della crisi, che spesso con condotte ambigue hanno contribuito a infiammare lo scenario libico per interessi propri.

Prendiamo ad esempio i meglio noti duellanti dell’ultimo scorcio del 2019 sul palcoscenico della Tripolitania e della Cirenaica: Turchia e Russia. Impegnate, rispettivamente, nel sostegno a Sarraj e Haftar, le due nazioni in competizione per l’influenza strategica nella regione mediorientale si sono ampiamente accreditate per partecipare alla Conferenza di Berlino proprio attraverso la discutibile condotta politica tenuta in questi mesi.

La Turchia, si sa, ha ostentato il proprio appoggio ufficiale nei confronti dell’esecutivo libico riconosciuto dall’ONU e guidato da Sarraj, promettendo persino l’invio di una folta delegazione militare come forza di “pacificazione”; la Russia, dal canto suo, nonostante i ripetuti inviti di facciata alla pace, ha foraggiato militarmente sottotraccia le milizie di Haftar, auspicando il manrovescio del governo di Tripoli per mano del potente generale di Misurata.

Va da sé che il contributo di Turchia e Russia alla causa della pace è stato più ostentato che concreto ed efficace. Alla vigilia della Conferenza di Berlino, com’è noto, a Mosca c’è stato un tentativo di stabilire un cessate il fuoco in Libia, con lo scopo evidentemente, da parte di Erdogan e Putin, di presentarsi poi nella capitale tedesca il 19 gennaio con una posizione di forza ancor più consolidata agli occhi dell’ONU stessa e degli altri Paesi (soprattutto europei) impegnati nel vertice. L’intento di Ankara e Mosca, però, come si sa è parzialmente fallito, perché nei fatti il cessate il fuoco stabilito nella capitale russa è stato soltanto faticosamente accettato da Haftar e poco concretamente attuato, considerati tutti i cecchini che ancora sparavano nei giorni scorsi a Tripoli.

Nelle settimane precedenti la Conferenza di Berlino, altri Paesi avevano già provato con diversi, ulteriori approcci, allo scopo di aumentare il proprio peso sullo scacchiere libico. Non senza qualche difficoltà, Sarraj e Haftar li hanno assecondati tutti, per vedere cosa avevano da offrire: si è cominciato con il “tandemFrancia Germania, con Parigi sempre interessata a mantenere una posizione borderline tra il sostegno sotterraneo a Haftar e l’appoggio ufficiale alla pace e all’ONU e Berlino che in realtà è probabilmente l’unico negoziatore davvero forte e credibile in Europa.

Si è proseguito con il maldestro tentativo dell’Italia, col governo Conte che, al contrario, nell’affannoso tentativo di recuperare posizioni sullo scacchiere internazionale, ha tentato di combinare “per caso” un clamoroso incontro tra Sarraj e Haftar a Roma, finendo per parlare (imbarazzato) solo col secondo e dovendo poi riorganizzare, dopo un iniziale rifiuto, il vertice con il primo, infuriato per l’udienza cordiale concessa da Conte al rivale.

I risultati del vertice e il ridimensionamento dell’Italia

Insomma, la Conferenza di Berlino doveva mettere ordine tra queste posizioni, servendo più ai terzi interessati che alle parti in causa. Con Sarraj e Haftar che, a quanto sembra, non solo non si sono voluti nemmeno incrociare, ma non hanno nemmeno firmato ufficialmente il documento finale, il prodotto della Conferenza si è limitato al più classico dei “giù le mani dalla Libia” rivolto ai Paesi strategicamente impegnati nell’area.

Almeno questo specifico intento, a parole, sembra per ora riuscito. Il compromesso pattuito alla Conferenza consiste proprio nel definitivo stabilimento di un cessate il fuoco e, soprattutto, in un embargo totale di armi e munizioni. Quest’ultimo capitolo della dichiarazione finale del vertice sembra rivolto proprio alla Turchia e alla Russia (e in parte anche alla Francia), che dunque dovrebbero smettere (il condizionale è d’obbligo) di fomentare il fuoco momentaneamente sepolto sotto la cenere sparsa dalla diplomazia.

Un ruolo di primo piano, nell’elaborazione delle condizioni della pace momentanea, l’ha avuto il delegato delle Nazioni Unite per la Libia Salamè, che alla Conferenza di Berlino ha imposto di fatto la soluzione preferita dal Segretario Generale dell’ONU Guterres, ovvero l’immediata sospensione dei combattimenti e la rinuncia a ogni altra ipotesi di intervento militare in Libia, compreso quello delle stesse Nazioni Unite, pur caldeggiato da Paesi come l’Italia.

Proprio l’Italia appare tra gli attori più ridimensionati dalla Conferenza di Berlino. Non bastava la continua incertezza dimostrata nelle scorse settimane da Conte e Di Maio, sempre alla ricerca di una soluzione conciliatrice di cui, però, come nel caso dell’incontro tentato a Roma, sono sempre sembrati sbagliati o poco calcolati i tempi e i modi: poco credibile è stato anche il tentativo di Di Maio di “mettere il cappello” sul precario accordo di Mosca per il cessate il fuoco. La Conferenza di Berlino ha detto infatti che l’ipotesi di una forza di interposizione internazionale da schierare in Libia a comando ONU, la preferita dell’Italia che si è sempre detta pronta a partecipare attivamente a una simile missione, è per il momento naufragata per volontà della stessa ONU.

In effetti, poiché per ora non ci sarà alcun intervento armato, nemmeno a scopo pacificatore, secondo quanto stabilito dal memoriale della Conferenza di Berlino la proposta italiana è stata accantonata senza troppi complimenti. È evidente che la spedizione a guida ONU caldeggiata da Conte e Di Maio servisse a coinvolgere l’Italia in un’iniziativa autorevole in grado di garantire a Roma un ruolo di primo piano che, da sola, non avrebbe la forza né politica né diplomatica di imporre, nonché, al contempo, a costringere rivali come la Francia o le stesse Turchia e Russia a desistere da intromissioni sottotraccia che potessero compromettere le già precarie posizioni dell’Italia nell’accaparramento degli idrocarburi libici.

È altrettanto lampante, del resto, che la posizione italiana al vertice in terra tedesca è stata costantemente secondaria, al limite del non rilevante: il seppellimento dell’opzione interventista da parte dell’ONU, col silenzio assenso interessato proprio di Francia e Stati Uniti, si è associato alla sostanziale noncuranza circa i gravi fatti del sud della Libia di poche ore prima della Conferenza di Berlino, quando Haftar si era permesso di bloccare alcuni importanti pozzi indirettamente controllati dall’ENI senza che la denuncia da parte della multinazionale italiana avesse potuto smuovere le coscienze occidentali. Persino nella tradizionale foto di gruppo di fine vertice Conte non ha trovato posto in prima fila, dovendo scalare anche figurativamente in seconda posizione.

In uno scenario, dunque, che in fin dei conti vede penalizzata praticamente solo la posizione italiana, la Conferenza di Berlino lascia impregiudicati tanti interessi collaterali che girano intorno alla Libia. La soluzione trovata all’esito del vertice immobilizza per ora i rapporti di forza dei contendenti per il controllo della regione, ma non ne inibisce le future iniziative. È un accordo “negativo”, ispirato alla politica del non intervento, che mira a suscitare delle conseguenze meramente politiche (ipotesi di un nuovo esecutivo di unità nazionale attraverso nuove elezioni, concordia tra le parti in lotta per una nuova Libia inclusiva di tutti gli interessi a confronto) e per ciò stesso apparentemente fragile.

Ludovico Maremonti

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