From the land of the sky-blue water
They brought a captive maid,
And her eyes, they were lit with lightning;
Her heart was not afraid!1
Nella trasposizione cinematografica del 1951 di Un tram che si chiama desiderio, Vivien Leigh, nelle vesti della “delicata” Blanche DuBois, intona una strofa di «una vecchia canzone»2: From the Land of the Sky-Blue Water, composta all’inizio del Novecento da Charles Wakefield Cadman. La perifrasi “Sky-blue water” traduce “Mnisota”, il nome usato in lingua Dakota per indicare il Minnesota, l’affluente del Mississippi dalle “acque blu come il cielo”. Tra un fiume e il cielo si apre il dramma teatrale di Un tram che si chiama desiderio, opera di Tennessee Williams del 1947, vincitrice del Premio Pulitzer per la drammaturgia nel 1948. Il testo della pièce è stato ristampato nel gennaio 2020 da Einaudi, curato e tradotto in italiano da Paolo Bertinetti. In balia delle note di Cadman, però, siamo scivolati di gran lunga più a sud: sotto il cielo «quasi turchese» della prima scena, prende vita una sera di maggio a New Orleans, intiepidita dal «caldo alito» del fiume e dalla musica scorrevole del «blue piano» che si sente sempre suonare, in lontananza. La “captive maid”, appena scesa dal tram Desire, è la protagonista Blanche DuBois: una raffinata insegnante di letteratura, prigioniera del suo passato. La fragile Blanche, nell’immaginario di Tennessee Williams, si sforza di tenere insieme i fasti della borghesia sudista, contrapposta al mondo industriale delle grandi metropoli nordamericane. Un mondo, quello del Sud, destinato a capitolare, e lentamente scomparire: se la letteratura della Southern Renaissance lo aveva già invocato con pietà, quest’opera dei tardi anni Quaranta gli riserva rimpianto e nostalgia, e persino tenerezza. È con questa delicatezza che Williams maneggia il personaggio di Blanche, che è originaria di una ricca famiglia di possidenti di Laurel, in Mississippi, e ha trascorso gran parte della sua vita nella fastosa residenza di Belle Reve. Quando giunge a New Orleans, però, è sul lastrico: perduti i terreni e la residenza per difficoltà finanziarie, i membri della sua famiglia si erano spenti uno dopo l’altro, da lei assistiti con devozione. Blanche, rimasta sola, si era trasferita in un albergo e circondata di uomini, per mettere a tacere il dolore di un trauma giovanile: il suicidio del suo primo marito, un giovanissimo ragazzo omosessuale, che mai aveva potuto ricambiare il suo amore. Perduto anche il lavoro da insegnante, si era vista costretta a lasciare Laurel: è così che aveva raggiunto a New Orleans sua sorella Stella, che pochi anni prima aveva lasciato Belle Reve e aveva sposato Stanley Kowalski, un operaio di origine polacca, interpretato da Marlon Brando nella film del ’51, oltre che nella prima assoluta al Barrymore Theatre di New York, il 3 dicembre 1947.
L’incontro tra Blanche e la “cosmopolita” città della Louisiana è carico di tensione: la decadenza sguaiata della casa di Elysian Fields e la violenza di Stanley minacciano di scomporre la maschera da “bellezza del Sud” che la donna si sforza di sostenere. Determinante è lo scontro con il cognato: tra i due la distanza è innanzitutto di classe. Blanche ostenta il suo disappunto per il tenore di vita tanto modesto della sorella, è elegante e civettuola, talvolta persino snob; Stanley è un reduce di guerra, rude e irriguardoso: «in lui c’è persino qualcosa di… subumano… qualcosa di primordiale. Sì, qualcosa di scimmiesco, come in certe fotografie che ho visto quando studiavo antropologia»3; senza nascondere un pregiudizio razziale, talvolta Blanche lo definisce “polacco”: appellativo che, come nota Paolo Bertinetti, significa innanzitutto “cattolico”, e per questo malvisto, agli occhi di una donna borghese e protestante. Ma quel che la giovane DuBois non è capace di comprendere, tanto meno di tollerare, è la devota sudditanza che lega la sua sorella maggiore a quell’uomo tanto “bestiale”. Stella è avvinta dalla passione travolgente per Stanley, soggiogata dalla loro intesa sessuale, tanto che «quando sta via una settimana quasi impazzisco. […] E quando torna mi metto a piangere tra le sue braccia come una bambina»4. La forza vitale di lui sembra irradiarsi da ogni fibra del suo essere: la potenza muscolare del corpo, il magnetismo dello sguardo, il bambino che aspetta con Stella, a sancire la prospera fecondità del loro matrimonio. Stanley è un macho di prorompente attrattività e carisma, meglio esercitato con la prestanza violenta del corpo, che col discorso: il suo linguaggio è aspro e sgrammaticato, i toni autoritari e aggressivi. È alla luce del desiderio che la avvince che Stella sopporta umiliazioni e percosse. Un desiderio, il suo, intriso di tenerezza per un uomo-bambino, che la appaga e distrugge, la desidera e umilia: ne dispone come un giocattolo, secondo il proprio piacere. Stanley perde le staffe e l’aggredisce fisicamente ma, quando Stella si rifugia dalla vicina Eunice, geme disperato, pregando che «la mia bambolina venga giù da me»5: quando lei cede, le posa il capo in grembo e si lascia perdonare. Non è certo un perdono guadagnato, il suo: è Stella a dipendere dalla possibilità di prendersene cura, a farsi per lui oggetto e madre, vittima accondiscendente, desiderante e mai autenticamente desiderata. Stanley, infatti, del desiderio conosce solo il potere dissolutivo: il consumo famelico dell’oggetto desiderato, la soddisfazione istantanea e animalesca; non conosce l’attesa, la cura. Manca della pazienza di hegeliana memoria, che non si accontenta di nutrire il desiderio alla prima occasione utile, ma lo lascia sedimentarsi e maturare, “formare” il suo oggetto. È lo spazio di attesa tra desiderio e soddisfazione a liberare creatività e cultura: nella misura in cui un essere umano non annienta immediatamente quel che insegue, è in grado di lavorarlo, trasformandolo in un’opera che gli sopravvivrà. Per questo Blanche, di Stanley, può dire che sembra che tanti secoli gli siano passati accanto senza neanche sfiorarlo: la sua prepotenza famelica lo rende incapace di coltivare la bellezza, «cose come l’arte, la poesia, la musica […] raggi di luce come questi sono venuti a illuminare il mondo. In qualcuno è incominciato a germogliare qualche bocciolo di delicatezza»6. Il desiderio di Stanley non ha nulla della brama inesauribile che fa di volta in volta di un oggetto diverso il suo oggetto prediletto, senza mai soddisfarsi completamente, rassegnandosi a de-siderare, cessare di fissare le stelle. Il suo desiderio sembra piuttosto un bisogno: chiaro e circoscritto, immediatamente espletato. E del desiderio, il marito di Stella, sembra persino rifiutarsi di diventare realmente oggetto: come ben spiega Elisa Cuter nel suo Ripartire dal desiderio (minimum fax, 2020), il rapporto sessuale, pienamente vissuto, non è mai un’esperienza conciliante per la propria identità, esattamente perché passa per l’essere desiderati. Riconoscersi oggetti di desiderio significa deporre le armi, riconoscersi in balia dell’immaginazione dell’altro, del quale si accetta l’autorità definente, il desiderio, appunto, che ci chiama in causa come non avevamo mai osato considerarci. Stanley non concede alcuna legittimazione all’alterità; si limita ad appropriarsene, fagocitandola a uso e consumo del suo ego. A sua moglie non riserva che la considerazione sufficiente ad oggettificarla, senza accettare di farsi oggetto a sua volta, senza uscire dalla bolla di egoismo infantile che gli impedisce di porsi alla pari con il diverso.
DuBois «significa bosco. E Blanche significa bianca. Così nome e cognome significano “bosco bianco”. Come un frutteto in primavera»7: anche Blanche sembra restia a divenire oggetto, ma per sfuggire alla violenza distruttrice di Stanley. Tutto, in lei, è un tentativo di conservarsi, di salvare un’apparenza di compostezza, a dispetto della sua profonda frantumazione. Lega il suo nome a un frutteto, ma di quelli fioriti, che ancora sfuggono alla raccolta; odia la luce diretta, che potrebbe rivelare i suoi trent’anni, e si muove con esitazione, come una “farfalla notturna”. Il cognato, dal canto suo, non fa che violarla, annientandola con invadenza: prima fruga nel suo baule, alla ricerca dei documenti che attestino la perdita di Belle Reve, poi tocca le lettere d’amore del marito suicida, che Blanche minaccia di bruciare perché tutti abbiamo qualcosa «che non vogliamo venga toccato da altri per sua natura… intima»8. Quest’intimità, spazio in cui Blanche spera disperatamente di ricostruire la sua persona, verrà definitivamente sgominata con lo stupro, che sancisce per lei l’inizio della follia. Solo nella scena finale, infatti, Blanche «emana una tragica luminosità»9: è ormai ineluttabilmente distrutta. Dalla morte del marito, la luce del desiderio non è mai stata più forte di una “candela da cucina”: difficile a vedersi, l’ha inseguita come una chimera, senza ritrovarla mai. Perduto il desiderio, con la sua incalzante infinitezza, nulla le resta di autentico e la follia la trasforma per sempre nella maschera che fingeva di essere. Di questo desiderio che non le è proprio, cui ambisce con frustrazione senza sentirlo mai, Blanche può solo chiedere, guardandolo da lontano: «quel tram che si chiama Desiderio continua ancora ad arrancare su e giù a quest’ora di notte?»10.
Siria Moschella
1 La prima strofa di From the Land of the Sky-Blue Water (1909), di Charles Wakefield Cadman.
2 Così vi accenna Tennessee Williams nella didascalia del testo teatrale
3 Tennessee Williams, Un tram che si chiama desiderio, p. 75, Einaudi 2020.
4 Ivi pp. 40-41.
5 Ivi p. 66.
6 Ivi p. 76.
7 Ivi p. 62.
8 Ivi p. 53.
9 Ivi p. 128.
10 Ivi p. 88.