Se oggi dovessimo fare un sondaggio per chiedere quale sia il simbolo della crisi economica, le banche sarebbero certo al primo posto. Per questa ragione temo che le critiche alle fondazioni bancarie siano basate più su una posizione preconcetta, piuttosto che da una reale conoscenza del problema. Come sempre quindi, ma questa volta in modo più convinto, introdurrò il mio V comandamento con un’ampia descrizione dell’ambito trattato, nella speranza di aiutare il lettore di questo post a comprendere l’argomento e metterlo in condizione di giudicare con cognizione di causa le mie tesi, non basandosi sul sentito dire ma su fatti e realtà.

La nascita delle fondazioni trova la sua origine dalla condizione del sistema bancario del secolo scorso. L’attività bancaria era infatti considerata come “attività di interesse pubblico” e quindi lo Stato si sentiva legittimato ad averne il pieno controllo, basti considerare che a fine degli anni ottanta più della metà degli enti creditizi italiani erano di diritto pubblico e quelli privati di una certa rilevanza si potevano contare sulle dita di una mano. Le spinte europee all’apertura del mercato resero necessario individuare una soluzione per eliminare questa anomalia tutta italiana. Come sempre l’Italia trovò una soluzione degna della propria fantasia e dell’innata avversione al cambiamento, supportata dalla incrollabile volontà della politica di non cedere la propria enorme capacità d’influenza e controllo economico. Si giunse così alla legge delega Amato – Carli 218/1990 con cui gli enti bancari furono trasformati in società per azioni sotto il controllo delle fondazioni bancarie, che avrebbero dovuto investire i propri dividendi per “fini di interesse pubblico e di utilità sociale”. Insomma un sacco di rumore per nulla! Peraltro le fondazioni ebbero l’obbligo di detenere il controllo degli enti bancari fino alla direttiva Dini del 1994 e solo nel 1999 con la legge Ciampi fu stabilita la missione filantropica delle stesse dichiarandole “persone giuridiche private senza fini di lucro…”.

Nei venticinque anni di storia delle fondazioni si ricorda anche il tentativo del creativo Tremonti che provò, con la finanziaria del 2002, a mettere le mani sul patrimonio delle fondazioni, limitandone fortemente l’autonomia e, con il contributo della Lega, di renderle strettamente legate al territorio di origine per sopperire, sostanzialmente solo al nord, ai tagli dei trasferimenti verso gli enti locali. Tale impostazione fu bocciata dalla suprema Corte che, con le sentenze 300 e 301 del 2003, volle separare definitivamente l’ente pubblico e la società bancaria e dichiarò incostituzionale la prevalenza negli organi di indirizzo delle fondazioni dei rappresentanti di regioni, province, comuni, città metropolitane stabilendo che tale prevalenza dovesse essere assegnata ad una qualificata rappresentanza di enti, pubblici e privati, espressivi della realtà locale.

L’evoluzione delle fondazioni non è ad oggi ancora terminato e lo scorso 22 aprile è stato sottoscritto un protocollo d’intesa (http://www.mef.gov.it/inevidenza/article_0112.html) dal Ministro dell’Economia e delle Finanze e il Presidente dell’ACRI (Associazione di fondazioni e casse di risparmio) con cui s’intende modificare alcuni aspetti economico\finanziari e rendere più solida la governance di cui però non parleremo oggi per questioni di tempo.

Da questa introduzione cosa possiamo dedurre che:

  1. le fondazioni nascono per liberalizzare il mercato
  2. le banche e poi le fondazioni erano considerati beni d’interesse pubblico con utilità sociale
  3. gestiscono i frutti di un patrimonio enorme per finalità sociali

Se i tre punti sopra sono veri, perché si dovrebbe voler chiudere le fondazioni bancarie che in qualche modo rappresentano l’unica difesa per alcuni dei settori culturali e sociali più trascurati dallo Stato? E come impegnare i frutti derivanti dalla cessione delle fondazioni?

La mia risposta alla prima domanda è talmente semplice da apparire addirittura banale: per togliere un immenso potere alla politica, un potere con cui amministratori non all’altezza del ruolo, normalmente trombati della politica, gestiscono i soldi che una volta erano nostri e dal 1990 sono stati assegnati in via esclusiva alla politica. Se non bastasse come motivazione il fatto che le fondazioni bancarie hanno un patrimonio gigantesco gestito da nominati, sarà utile ricordare che i partiti riescono ad esercitare la propria influenza anche sulle banche controllate, grazie alle partecipazioni delle fondazioni. Senza voler negare i meriti di quegli amministratori, ne esistono senz’altro, che svolgono il loro compito in modo corretto, pensando al bene della comunità ed evitando di cedere alle lusinghe della politica, il mondo delle fondazioni sembra essere considerato il pozzo senza fondo della politica locale, il borsellino con cui acquistare consensi, benevolenze ed accontentare chi non è riuscito ad arrivare a Roma.

Per rispondere alla seconda domanda dobbiamo conoscere la dimensione del patrimonio delle 88 fondazioni italiane.

La tabella presentata qui di seguito (fonte: diciannovesimo rapporto sulle fondazioni di origine bancaria) rappresenta la distribuzione delle fondazioni per area geografica e dimensione del patrimonio aggiornata al  31/12/2013.

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Il patrimonio complessivo è di 40.8mld di euro (per altro in calo di 1.3mld sull’anno precedente) come evidenziato nello studio stesso.

Nello 2013 le erogazioni invece sono state pari a 884mln, distribuite come rappresentato nella tabella seguente:

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A questo punto la risposta dovrebbe essere chiara a tutti: gli importi derivanti dalla vendita delle fondazioni dovrebbe essere utilizzata per l’abbattimento del debito pubblico.

Supponendo infatti una riduzione del debito di 40 miliardi si potrebbe ottenere un risparmio sugli interessi, ai bassi tassi attuali,  di circa 1mld una cifra che, per quanto bassa, è comunque superiore a quanto oggi distribuito.

La chiusura delle fondazioni bancarie, come tutti gli altri comandamenti di cui abbiamo già discusso, punta dritto verso la riduzione dell’area d’influenza della politica nella vita economica del paese, permetterebbe di realizzare una vera liberalizzazione del mercato e l’espulsione dello Stato da un settore la cui presenza non riesce ad essere giustificata se non dalla insana volontà di gestire soldi e potere per garantirsi clientelismo ed influenza a fini privati.

Corrado Rabbia

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