I fan di Netflix saranno sicuramente in fermento per Dark, la serie che ha appena debuttato sulla piattaforma (al momento della stesura dell’articolo) o per The Punisher, l’ultimo pargolo di casa Marvel online da qualche settimana. Oggi, invece, noi torniamo a parlare di Mindhunter.

È tardi, dite? Si è tardi, la serie ha debuttato più di un mese fa destando il giusto clamore nel pubblico, mostratosi sempre reattivo allo stile e alle idee di David Fincher. Ma, come i vini più pregiati han bisogno di decantare, converrete che esistono dei prodotti che esigono una tempistica diversa per essere metabolizzati e apprezzati appieno.

mindhunter tench wendy

È il caso di Mindhunter. Seguendolo, proverete di certo una grandissima attrazione. E, senza che ve ne rendiate conto, avrete fatto binge-watch di quelle dieci puntate. Quando vi chiederanno il perché, cadrete in esitazione, dilaniati dal dubbio. Vi verranno in mente svariati motivi ma nessuno di davvero convincente, o peggio, non ve ne verrà alcuno. Sarete ancora affetti da quella che noi chiamiamo narcosi estasiata post-mindhunter.

Noi ne siamo finalmente usciti, ecco allora perché dovreste recuperarla:

Il macabro e il morboso:

La violenza, quando questa è pensata, seriale, particolarmente efferata e truculenta, crea in chi l’ascolta una perversa fascinazione. Difatti capita spesso di voler saperne dei delitti, come sia stata assassinata quella persona, tutti i dettagli su come un corpo è stato ritrovato. Forse perché non ci spieghiamo come la mente umana, dipinta come razionale e misurata, possa commettere abiezioni così spinte. Ma, checchè ne dicano i fan di John Locke, la violenza fa parte di noi.

La storia è costellata di soprusi e la storia corrisponde a nient’altro che alle nostre azioni. Riguarda le nostre pulsioni ancestrali tenute a freno solo da un sistema di regole introiettate culturalmente, così come la depravata morbosità verso tali temi è una risposta involontaria a due forze inconciliabili e dicotomiche: da un lato, il sistema di sanzioni imposte della nostra società e, dall’altro, gli impulsi violenti sempre presenti e vivi nell’animo umano. Quindi l’unico modo per assisterla (la violenza!), pur sempre scorta attraverso un velo artistico, è proprio quello delle azioni altrui. Questa permette di appagare la nostra sete residua.
E non è un peccato, è natura umana.

mindhunter anna torv

Serie tv sui generis

Non aspettatevi una trama convenzionale, con un incipit classico e un epilogo scontato e sostanziale. Mindhunter è, essenzialmente, una discesa nei recessi oscuri e perversi della mente umana, sotto le mentite spoglie dell’inchiesta con cui i due protagonisti intervistano i veri serial killer (interpretati tutti da attori talentuosi) al fine di tracciare dei profili e degli schemi comportamentali delle menti devianti. Quanta psicologia, quanta sociologia.
È, quindi, la storia di due uomini realmente esistiti, i primi profiler dell’FBI, con i loro problemi, le loro questioni famigliari scandite dalle difficoltà di conciliare un lavoro ostico con la vita ordinaria, al riparo da questi orrori.

mindhunter netflix

I simbolismi inquietanti e i messaggi nascosti

Ci sono momenti e alcune scene apparentemente senza un senso limpido in Mindhunter. Si lascia allo spettatore la possibilità di fare le sue libere associazioni. Ma tutto s’impernia attorno al concetto di fragilità della mente umana, dal figlio di Bill Tench (uno degli agenti protagonisti) al gatto nello scantinato di Wendy (una sua collaboratrice).
Il figlio dell’agente Tench ha subito un trauma o forse no, fatto sta che è caduto in un mutismo preoccupante. Ha anche una strana attrazione verso il lavoro (soprattutto verso il comparto fotografico) del lavoro del padre, come a voler sottolineare che i più grandi deviazioni si generano lì, in quel momento delicatissimo della crescita di un bambino.

Il gatto di Wendy (interpretata da Anna Torv) non lo si vede mai sullo schermo, si percepisce la sua presenza, in un primo momento come entità liminale e sinistra. E si cela in una breccia dello scantinato, impaurito, al riparo nella sua oscurità. Wendy capisce che si tratta di un gatto e gli da mangiare, lasciandogli lì la scatoletta di cibo che il giorno dopo, puntualmente, troverà vuota.
Poi accade qualcosa, nell’ultima puntata Wendy gli porterà la solita scatoletta, ma il giorno dopo, invece di recuperarla vuota, ella la troverà piena di vermi brulicanti. La paura del gatto non era ingiustificata, forse (ma qui è interpretazione) qualcuno gli ha fatto del male, come a voler dire che la violenza si manifesta, nella sua genesi, prima verso degli esseri indifesi e poi si catalizza verso gli esseri umani.
Ma questi sono alcuni esempi, le espressioni degli attori, la loro ossessione, le loro sofferenze, le dinamiche d’interazione (anche sentimentali) dipingono un quadro simbolico e semantico che va oltre ciò che vediamo.

Carnefici si diventa, non si nasce

Mindhunter ci da un’indicazione: nessuno nasce malvagio. C’è sempre un motivo. Non che questo lo scagioni dalle sue responsabilità, stiamo parlando di gente con cui faceva dei posaceneri con i teschi delle loro vittime, spesso membri della loro famiglia. Ma dentro i loro antri degli orrori si nasconde qualcosa di più: umiliazioni di una madre, abusi, ossessioni conseguenti alla creazione di “costrutti personali” malati che necessitavano di un supporto psicologico e sociale sempre mancato. I mostri non nascono mostri, lo diventano, così come il confine tra essere umano e mostro è più labile di quanto si possa pensare. Vedendo l’ultima puntata ve ne renderete conto.

Enrico Ciccarelli

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