L’impressione che, a partire dal fallito golpe del luglio 2016,  gli eventi stiano precipitando in Turchia riceve sempre più conferme. La deriva autoritaria di Erdoğan, gli attentati, gli arresti arbitrari e il bavaglio a qualsivoglia voce di dissidenza gettano ogni giorno di più il paese nel caos.

Se il tentato golpe del luglio 2016 aveva posto in Turchia le basi per una massiccia epurazione dall’alto degli elementi considerati pericolosi (giornalisti, magistrati, politici, attivisti), gli ultimi due attentati che hanno colpito la Turchia hanno fornito il pretesto per una mobilitazione dal basso, che andasse a risvegliare “la pance” dei cittadini turchi. Lo scorso 10 dicembre, infatti, un attentato allo stadio del Beşiktaş ha causato 44 morti e 166 feriti, mentre un’autobomba esplosa in un autobus a Kayseri ha ucciso 14 soldati e ferito 56 civili. Entrambi gli attentati sono stati ricollegati al TAK (Falchi per la libertà del Kurdistan), partito curdo estremista nato da una scissione del PKK.

A seguito del primo attentato, Erdoğan ha tenuto un discorso nel palazzo presidenziale di Ankara, rivolto ai muhtar (governatori locali) e ai cittadini della Turchia, in cui chiamava alla mobilitazione generale contro il terrorismo: «Da leader della Repubblica della Turchia, in ossequio all’articolo 104 della nostra costituzione, dichiaro una mobilitazione nazionale contro il PKK, DAESH, FETÖ, DHKP-C e tutte le altre organizzazioni terroristiche, qualsiasi siano i loro nomi, le loro richieste e i loro metodi». L’articolo 104 della costituzione della Turchia, infatti, è quello che viene invocato più spesso dalle forze politiche che inneggiano all’unità e alla difesa della nazione. In questo articolo, in cui vengono definite funzioni e poteri, il presidente della Repubblica turca è il garante della Costituzione e dell’unità nazionale.

Questa chiamata alla mobilitazione generale è stata letta, da alcune forze in campo, come l’inizio di una vera e propria guerra civile, che coinvolgerebbe i cittadini in primis. Nel suo discorso, infatti, come riportato dall’Hurriyet Daily News, Erdoğan chiede il supporto di tutti i cittadini: «Non possiamo lasciare la nostra sicurezza in mano soltanto alle forze pubbliche. Sto chiedendo l’aiuto di tutti i cittadini per aiutare le nostre forze di sicurezza».

Non a caso, dopo il discorso, centinaia di manifestazioni filo-governative si sono svolte in Turchia. E i cittadini si sono scagliati autonomamente contro il nemico interno. In particolare, la reazione è stata decisamente feroce a Kayseri, recentemente colpita dall’attentato: la popolazione è scesa nelle piazze, intonando slogan nazionalistici e sventolando bandiere, ha colpito con pietre ed esplosivi le sedi del partito filo-curdo HDP e di quello repubblicano CHP. La rappresaglia è stata poi dispersa dalla polizia.

C’è poi chi, come Duran Kalkan, del comitato esecutivo del PKK, collega il discorso di Erdogan direttamente alla battaglia in funzione anti-curda: «Erdoğan vuole il genocidio dei curdi. Tutti dovrebbero adottare le dovute precauzioni. Naturalmente i curdi resisteranno fino alla fine», riporta UIKI Onlus (Ufficio Informazione del Kurdistan in Italia). I curdi, infatti, fin dalla nascita della Repubblica di Turchia sono stati trattati alla stregua di un nemico interno da assimilare o abbattere e non stupirebbe se il discorso di Erdoğan risultasse in un ulteriore peggioramento delle relazioni con i curdi che vivono in Turchia. Ayhan Bilgen, portavoce dell’HDP, a tal proposito ha dichiarato: «La costituzione stabilisce chiaramente chi può dichiarare la mobilitazione e come. Lui (Erdoğan ndr) ha dichiarato la mobilitazione generale in un meeting con i governatori dei villaggi e ha creato una situazione di fatto. Che sarà però giustificata legalmente soltanto dopo. Questo è solo l’inizio della campagna per una presidenza esecutiva e per il referendum».

Ma la guerra civile viene paventata non soltanto dai curdi, sotto il mirino della repressione ormai da mesi, ma anche da chi sta dall’altra parte. Murat Yetkin, opinionista dell’Hurriyet Daily News, sostiene l’idea che sia il PKK a voler far precipitare il paese in uno stato di tensione continua: «È esattamente questo ciò che il PKK vuole: indirizzare la rabbia delle folle agitate spostandola dagli atti di terrorismo verso i curdi della Turchia. In questo modo la gente in tutto il Paese inizia ad avercela con i loro vicini solo perché curdi, i quali a loro volta saranno costretti a schierarsi con il PKK per avere protezione».

A questa situazione non facile, si aggiunge il coinvolgimento della Turchia nella guerra in Siria, che crea destabilizzazioni interne ed esterne. Proprio in seguito alla decisione di cooperare con Russia e Iran, si è verificato in Turchia quello che da molti, sui social, è stato acclamato come il nuovo attentato di Sarajevo che aveva dato inizio alla Prima guerra mondiale: un ambasciatore russo è stato ucciso a colpi di pistola da Mevlüt Altıntaş, ex poliziotto turco.

La Turchia, dunque, si trova aggredita e aggredisce su più fronti: quello interno, contro i nemici – veri o presunti – della repubblica e quello esterno, contro gli Stati che attentano e complottano – come dichiarato dallo stesso Erdoğan – contro l’unità della nazione. Una situazione del genere crea un costante clima di insicurezza nei cittadini che, indifesi e sobillati nelle loro paure, si trasformano da vittime in carnefici.

Elisabetta Elia

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