Il clima che si respirava lo scorso 27 settembre, prima che i catalani si apprestassero a rinnovare il parlamento regionale e a eleggere il nuovo presidente della Generalitat – il governo autonomo –, aveva tutto il sapore di una resa dei conti fra gli indipendentisti e i loro avversari.

La realtà, come al solito, si dimostra più fantasiosa di qualunque previsione, ed ecco che, all’indomani del voto, il risultato si è rivelato non così netto e univoco come ci si sarebbe aspettato.

Ma andiamo con ordine, e proviamo a tratteggiare lo scenario in cui si sono svolte le elezioni della scorsa domenica.

La Catalogna è una comunità autonoma spagnola che da tempo rivendica la sua indipendenza politica dalla Spagna, giustificata da peculiarità linguistiche e culturali che la distinguono nettamente dal resto del Regno.

Il voto di settembre ha costituito già di per sé un atto di sfida simbolico al governo centrale, giacché, inizialmente previsto per il 2016, è stato anticipato dal presidente Artur Mas, in seguito al rifiuto di Madrid di concedere il referendum sull’indipendenza nel 2014.

Il partito di Mas, Junts pel si (Jps, Uniti per il sì), coalizzatosi con Candidatura d’unitat popular, ha ottenuto il 48% dei voti e la conseguente maggioranza assoluta nel parlamento regionale, che tuttavia non arriva a quel 50% che sarebbe servito quanto meno a legittimare, dal punto di vista numerico, ogni velleità di indipendenza.

catalogna Certo, per chi legge questi risultati con occhio benevolo e simpatie separatiste, una simile affermazione non può che somigliare a un plebiscito, un chiaro segno della volontà della Catalogna di staccarsi dalla Spagna.

D’altro canto, osservatori più imparziali potrebbero obiettare che il consenso popolare c’è, ma non è ancora abbastanza per dimostrare, inequivocabilmente, che la maggioranza della popolazione voglia davvero schierarsi a favore dell’autonomia.

Di conseguenza, è possibile concludere che un’eventuale secessione catalana diventa più difficile, per lo meno nell’immediato, dopo il voto di domenica scorsa, che pure ha evidenziato alcuni elementi che non è possibile ignorare.

In primo luogo, e per la prima volta nella storia della Spagna democratica, il parlamento catalano è formato da una maggioranza di deputati favorevoli alla secessione: 72 su un totale di 135.

I numeri dicono, inoltre, che i partiti nazionalisti hanno rimediato una sonora sconfitta, e ci riferiamo al Partido Popular di Mariano Rajoy e ai socialisti. Persino Podemos, il partito di Pablo Iglesias, ha deluso le attese, racimolando meno del 9% dei voti.

Di contro, non si può fare a meno di osservare che i due partiti vincitori dovranno governare insieme per consolidare il loro primato. La loro convivenza politica, però, è una cosa tutt’altro che scontata, basti pensare che Jps è un partito conservatore, mentre Candidatura di Unità Popolare è una lista di estrema sinistra anticapitalista, con un programma politico molto simile a quello di Varoufakis in Grecia.

Per sapere quale sarà il futuro della Catalogna bisognerà attendere altre tornate elettorali, come quella delle politiche in programma fra tre mesi, utile per avere un’idea della situazione politica nazionale.

In questo senso, è pur vero che la reazione di Madrid non si è fatta attendere, visto che, a soli due giorni dall’affermazione elettorale, lo stesso Mas è stato messo sotto accusa dal tribunale superiore di giustizia di Catalogna per aver convocato il referendum sull’indipendenza catalana di cui si parlava in apertura.

Nel frattempo, in Europa, l’esperimento catalano sta accendendo gli animi dei popoli separatisti come i baschi e gli scozzesi.

Oggi, probabilmente, siamo ancora al tempo dei proclami e delle schermaglie verbali, ma la sensazione è che l’indipendenza di uno Stato potrebbe provocare su tutti gli altri una sorta di effetto domino dalle conseguenze difficilmente prevedibili.

Carlo Rombolà

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