Etiopia: la nazione sta vivendo «il più pesante periodo di instabilità da più di due decadi a questa parte», riferisce la BBC. Nel paese del Corno d’Africa, infatti, il governo di Hailemariam Desalegn ha dichiarato lo stato d’emergenza il 9 ottobre scorso. Entrato in vigore a metà mese e previsto per altri sei, lo stato d’emergenza ha già avuto le sue conseguenze.

Le misure intraprese sono molte e riguardano in particolar modo l’informazione e la libertà dei cittadini d’Etiopia. Blocco dei social media, divieto di guardare alcuni canali televisivi, divieto di manifestare e fare gesti politicamente sensibili, coprifuoco dalle sei di sera alle sei di mattina, impossibilità per i diplomatici stranieri ad Addis Abeba di muoversi oltre 40 km nella capitale, impossibilità di trasportare armi entro un certo perimetro. A tutto questo, va aggiunto il fatto che le forze di sicurezza hanno maggiore libertà di azione, dovendo agire ogni qualvolta si sospetta la violazione di una di queste misure. Chi contravviene a tali norme, può rischiare il carcere da tre a cinque anni.

Lo stato d’emergenza arriva dopo mesi di proteste degli Oromo contro il governo. Gli Oromo, che vivono nella regione a sud della capitale, rappresentano l’etnia più numerosa d’Etiopia con il loro 32% della popolazione.

Le proteste erano iniziate già nel novembre 2015, ma si sono intensificate nei primi giorni di ottobre, quando, dopo una festività oromo, 55 persone del gruppo oromo erano rimaste uccise durante scontri con la polizia. Dopo l’incidente, infatti, si sono verificati attacchi più intensi da parte della popolazione, che a detta del governo avrebbero colpito alcune aziende straniere, simbolo della politica di “land grab” del governo. Da parte loro, gli Oromo sostengono che i morti non sono stati 55, bensì 500 e che le forze governative avrebbero aperto il fuoco contro la popolazione inerme.

«Lo stato d’emergenza è stato dichiarato a seguito di una approfondita discussione del Consiglio dei ministri sulla perdita di vite e sui danni che si sono verificati nel paese» dichiara il Primo Ministro Desalegn, come riportato dalla CNN. «Vogliamo mettere fine a questa situazione».

D’altra parte, l’Oromo Liberation Front, che è il partito che guida il dissenso oromo contro il governo, porta avanti le sue ragioni, che non sono legate alla semplice attualità, ma hanno radici più profonde: «L’attacco sistematico contro la gente oromo, la distruzione delle istituzioni degli Oromo e lo sfruttamento delle risorse degli Oromo da parte delle elite statali abissine sono iniziati nelle ultime decadi del diciannovesimo secolo» si legge sul sito dell’OLF. Se non si ferma questo processo, avvisano, «il mondo lascerà che avvenga un genocidio come in Ruanda».

Le ultime notizie, comunque, parlano anche dei primi arresti seguiti allo stato d’emergenza.

Il totale sarebbe di 1683 persone detenute in Etiopia, come riportato dalla FBC. Alcune per il possesso e il trasporto di armi, altre perché legate alle recenti ondate di violenza contro ditte straniere. Ma c’è anche chi viene arrestato perché reo di aver chiuso il proprio negozio o di aver abbandonato il proprio luogo di lavoro – in quest’ultimo caso si tratterebbe di tre maestre.

Nonostante l’impossibilità per gli abitanti dell’Etiopia di parlare attraverso i social network, ad esprimere la propria solidarietà vi sono gli etiopi sparsi per il continente, come quelli che vivono a Perth, Australia, e si sono riuniti per mostrare il proprio coinvolgimento nella causa e fare pressione sul governo australiano affinché intervenga. Ma ci sono anche i cittadini del resto del mondo, che denunciano ciò che sta succedendo attraverso un semplice tweet: «Cose che non puoi fare in Etiopia: usare i social network, guardare i telegiornali, protestare per nessun motivo e in nessun luogo», dice Livia Labate. Le opinioni, comunque, sono tutte molto simili: si chiede aiuto e giustizia per gli etiopi.

Elisabetta Elia

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