razzismo, George Floyd

I can’t breathe” non ha bisogno di traduzioni. Frase lapidaria, iconica, significativa, che echeggia forte come un urlo, per implorare un aiuto da parte di la legge dovrebbe farla rispettare, e non calpestarla meschinamente; è la frase che Eric Garner ha ripetuto per ben 11 volte in quel 17 luglio 2014 che gli è costato la vita, mentre un poliziotto gli afferrava il collo; è ciò che George Floyd ha pronunciato il 25 maggio, mentre un poliziotto teneva il ginocchio sul suo collo conducendolo lentamente ad una morte straziante. “I can’t breathe” è la scintilla che ha innescato la miccia di reazioni contro la piaga del razzismo negli Stati Uniti della quale siamo costretti a parlare ancora e che non ha lasciato nessuno in silenzio, specialmente il mondo dello sport americano, stufo come tutti noi di questa storia.

Già nel 2014, in seguito alla vicenda Garner, atleti del calibro del compianto Kobe Bryant, di LeBron James e Reggie Bush avevano reagito indossando una maglia nera che recitava proprio le parole pronunciate dall’uomo, ed esprimendo con forza il loro disdegno anche attraverso i social. La lotta contro il razzismo è proseguita nel 2016 e con grande scalpore da parte dell’ex quarterback dei San Francisco 49ers Colin Kaepernick, che iniziò a inginocchiarsi durante l’inno nazionale in segno di protesta contro l’oppressione della minoranza nera negli Stati Uniti, rimanendo in seguito “misteriosamente” senza contratto nonostante ci fossero squadre a cui avrebbe fatto decisamente comodo.

Kobe Bryant nel 2014 dopo la morte di Eric Garner

Il movimento sportivo non si è fatto da parte e sta facendo valere tutta la forza della sua voce al grido di “Black Lives Matters” e non solo sui social. Jaylen Brown, stella dei Boston Celtics, ha marciato fianco a fianco con i manifestanti ad Atlanta ed è solo uno dei tanti che ha deciso di non starsene in disparte, così come Trae Young che ha tenuto un discorso in pubblico in cui chiedeva e auspicava la pace in questo triste momento per gli USA. Anche il proprietario dei Dallas Mavericks, Mark Cuban ha marciato nella città texana contro questo scellerato razzismo che infesta gli Stati Uniti. Ma è di gran lunga riduttivo passare in rassegna alcuni nomi quando l’indignazione è diffusa e uno dei Paesi più forti è quasi sull’orlo della guerra civile.

La marcia di Jaylen Brown ad Atlanta

È giusto però nominare casi di grande umanità, come quello di Floyd Mayweather, che si è offerto di coprire le spese del funerale di George Floyd, oppure quello di Jon Jones, lottatore MMA che dopo aver affrontato a viso aperto alcuni vandali (che niente hanno a che fare con la lotta al razzismo) ad Albuquerque, ha aiutato anche a ripulire le strade dopo le proteste della notte precedente. Lewis Hamilton, da sempre attento a ogni tipo di tematica sociale, ha puntato il dito contro il circus di Formula 1 per il suo silenzio con parole molto forti, che per fortuna hanno portato alla solidarietà di altri piloti come Charles Leclerc e Daniel Ricciardo, inizialmente rimasti in disparte e probabilmente colpiti dall’affermazione del pilota britannico, che ha parlato di uno “sport di bianchi” che rimane indifferente rispetto a ciò che accade. Perché non è decisamente il momento di girarsi dall’altro lato e crogiolarsi nei propri averi, bensì quello di farsi sentire, anche nel piccolo, contro una piaga tutt’oggi ancora irrisolta.

Il tweet di Lewis Hamilton

Ma per ogni caso positivo ci dev’essere, purtroppo anche nella lotta al razzismo, un caso negativo di qualunque tipo. L’intero movimento NBA, partendo dalle franchigie e arrivando ai giocatori, ha partecipato alle proteste e alle manifestazioni di solidarietà, eccetto i New York Knicks. Il team, che di solito ha la bocca molto larga e non necessariamente per argomenti importanti, è rimasto in silenzio attirandosi le ire dei suoi stessi tesserati, e fornendo come unica spiegazione una mail interna trapelata tramite Twitter in cui affermano di non essere qualificati per poter parlare di questo argomento: insomma, un modo semplice e veloce per lavarsi le mani e fingere che ogni contributo non sia importante.

Anche in Bundesliga sta facendo discutere la presa di posizione che la lega sta auspicando, ovvero quella di multare Weston McKennie, Jadon Sancho, Achraf Hakimi e Marcus Thuram per la loro richiesta di giustizia per George Floyd. La linea guida infatti prevede che non si possano fare manifestazioni di tipo politico in campo per nessun motivo, quindi anche il grido contro il razzismo dei giocatori sarebbe una violazione di tale regolamento. Tuttavia anche la stessa Fifa, nella persona di Infantino, si è esposta per proteggere la scelta dei giocatori, facendo notare alla DFB il momento particolare in cui il mondo si trova e chiedendo quindi di soprassedere, e ci azzardiamo a dire per fortuna. Tuttavia sempre dalla Germania è arrivato il triste comunicato della BBL, il campionato tedesco di basket, che ha minacciato di multare chiunque sia coinvolto in manifestazioni anti-razziali. Gesto che ha però trovato la pronta risposta di Per Günther, playmaker del ratiopharm Ulm, che si è detto pronto a pagare le multe di coloro che manifesteranno contro il razzismo, dimostrando che per ogni persona che si gira dall’altra parte, c’è sempre qualcuno pronto a rimanere ben saldo con i propri principi, pronto a sfidare il mondo intero per ciò che è giusto.

Marcus Thuram in ginocchio dopo il gol

Il Blackout Tuesday del 2 Giugno è un altro messaggio forte e preciso che sportivi e celebrità hanno lanciato contro il razzismo. Un’immagine nera postata sui social che è poi diventata virale, un silenzio talmente assordante da esser diventato il simbolo di questa protesta. Perché il mondo può sentirci anche senza bruciare e sfasciare, come sta accadendo per mano di vandali che sfruttano la protesta per dar sfoggio della loro stupidità, e che probabilmente sono peggio di coloro che hanno scelto di rimanere in silenzio contro il razzismo. E noi che siamo esterni alla situazione, e che non possiamo capire appieno né i sentimenti né i desideri degli oppressi e dei discriminati abbiamo l’obbligo di unirci a loro, perché come abbiamo già ribadito a più riprese, è ridicolo essere costretti a ricordare alle persone che siamo tutti uguali. E che questo razzismo insulso e insensato ha veramente stufato tutti.

fonte immagine in evidenza: mprnews.com

Andrea Esposito

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