Il modo migliore per danneggiare l’economia di uno Stato che vive principalmente di turismo è senza alcun dubbio quello di colpire i suoi punti sensibili, come i siti archeologici e le strutture ricettive più attrezzate.

Nel caso della Tunisia, non dev’essere stata un’impresa particolarmente difficile per i terroristi dello Stato Islamico, visto che il paese di Beji Caid Essebsi si trova adesso in piena ricostruzione, dopo i fatti della cosiddetta primavera araba, che ne hanno determinato una straordinaria apertura democratica  e inclusiva.

Tornando ai fatti, abbiamo ancora negli occhi le immagini e i filmati provenienti dal museo del Bardo a Tunisi, il più antico del mondo arabo e il più grande e importante della Tunisia, dove lo scorso marzo si è consumata una strage a danno di 21 turisti provenienti da tutto il mondo e di un agente di polizia locale.

Il filo conduttore che lega quell’attentato alla carneficina di Sousse, dove il 26 giugno due uomini arrivati dal mare a bordo di un gommone hanno aperto i fuoco sui turisti in spiaggia, uccidendone 37 e ferendone altrettanti, è sin troppo chiaro.

Con questi attacchi i jihadisti vogliono indebolire l’economia tunisina, rendendo insicuro un Paese che sta cercando di ripartire dopo la fine della dittatura.

Ma perché prendere di mira un Paese come la Tunisia, che non costituisce una seria minaccia militare per i gruppi eversivi, né tantomeno un appetibile terreno di espansione per gli stessi?

Gli attacchi di Tunisi e Sousse ad opera dello Stato Islamico hanno una valenza strategia ed insieme simbolica.

L’assunto di partenza è che i nemici più temibili per la propaganda jihadista sono – oltre alla diffusione della cultura e del libero pensiero – la democrazia e il pluralismo. Questi due elementi, prezioso lascito della Rivoluzione dei Gelsomini, stanno provando a farsi spazio nella Tunisia post-Ben Ali.

L’obiettivo dei terroristi è proprio quello di scardinare ogni velleità di ricostruzione, colpendo lo Stato nei suoi punti vitali e sfruttando le sue debolezze, come l’inadeguatezza a proteggere il paese da parte delle esigue forze di sicurezza nazionale.

L’attentato di Sousse, come quello del Bardo, ha avuto l’effetto di costringere un governo democratico a prendere misure antidemocratiche, pur se temporanee, come la chiusura delle moschee che promuovono il terrorismo o il divieto di sventolare bandiere diverse da quella tunisina.

Colpendo la Tunisia, culla della primavera araba ed esempio di come un paese fino a pochi anni fa vessato dalla dittatura possa intraprendere con successo un vero processo di cambiamento, i jihadisti hanno inteso comunicare al mondo che la loro (sub)cultura non tollera altro che l’autoritarismo e la discriminazione.

In perfetta antitesi con quell’idea di stato civile, democratico e pluralista che i tunisini stanno provando a realizzare.

Adesso più che mai, urge la collaborazione della vicina Europa per contrastare ogni forma di cruento estremismo.

Carlo Rombolà

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