Caro Pino Daniele (o Pinotto, come ti firmavi da giovane), in questo mio personalissimo ricordo cercherò di non cadere nelle banalità delle ricorrenze e delle celebrazioni post mortem, per cui comincio dicendoti che non mi manchi.

Detesto la retorica degli anniversari nei quali tutti si cimentano in ricordi strappalacrime di persone che non hanno mai conosciuto se non dal punto di vista artistico. E detesto ancor di più i media che alimentano il circo del dolore. Inoltre, ritengo un paradosso avvertire la mancanza di qualcuno che si è conosciuto solo attraverso le sue opere. Le tue canzoni, caro Pino Daniele, non sono andate via con te, per questo la tua morte non ha cambiato di una virgola il rapporto col tuo pubblico, soprattutto con quello nostalgico dei tuoi esordi. Semmai, per quel che mi riguarda, resta il grande rimpianto di non averti mai ascoltato dal vivo.

Ad essere sincero, però, la tua mancanza ho cominciato ad avvertirla e a metabolizzarla quando, da piccolo, ho iniziato ad ascoltare i tuoi vecchi dischi riversati sui nastri di preistoriche TDK, perché l’artista Pino Daniele, quello che personalmente ho amato più di ogni altro, se n’è andato già molti anni fa. Mi iscrivo, dunque, al gruppo dei nostalgici. Non è un giudizio musicale (che non sono minimamente in grado di esprimere con competenza), il mio giudizio è “sentimentale”. Sei stato uno dei più grandi musicisti del mondo fino all’ultimo giorno della tua vita e quel tocco di chitarra, anche per chi. come me, è un perfetto asino di musica, sarebbe stato riconoscibile tra mille, anche se ti fossi messo a fare le cover delle canzoni di Natale, su questo non c’è dubbio.

Caro Pino Daniele, se c’è qualcosa che mi è mancata, non è certo la tua presenza fisica e, ora che non ci sei più, da ateo convinto, non sono alla ricerca di un totem da venerare. Però, confesso, mi sono mancati tanto, in questi 20(?) anni, la tua rabbia ed il tuo sguardo poetico e malinconico su questa città, così lontano da quella maledetta “Napule è” che è stata, forse, la tua croce e la tua delizia e che è diventata (tuo malgrado e senza che la canzone c’entri più di tanto) l’oleografia di una Napoli che non è mai esistita ma che serve come il pane a chi vuole raccontarla come perenne lotta tra male assoluto e bellezza paradisiaca. La ascoltiamo in loop ogni anno, da tre anni a questa parte, come sottofondo di qualsiasi racconto stereotipato su di te o sulla città (a volte sovrapponendo i due piani), svilendo tutto il lavoro di sprovincializzazione che hai portato avanti nel tuo primo periodo artistico.

Mi è mancata la tua narrazione popolana della quotidianità in lingua napoletana, così lontana dalle cartoline e così internazionale nel suono. In questi anni, mi sono mancati i personaggi che hai cantato e che (mio personalissimo parere) nessuno più è stato in grado di raccontare con la leggerezza che appartiene solo ai grandi.

Caro Pino Daniele, mi è mancato “Furtunato” che, col trascorrere degli anni, vedeva le facce dei suoi clienti ai balconi che cambiavano; mi è mancata la rabbia di “Donna Cuncetta” che «si fosse guagliona, je foss’ Napulione» e che in quel «tuppo» nero si trascinava dietro tutte le paure di un popolo in cerca del riscatto sociale; mi è mancato «chillu ‘bbuon’ guaglione» che, dando un calcio ai pregiudizi e alle “bizzocherie” sulla sessualità, progettava di farsi crescere i capelli e di andare in giro con i tacchi a spillo, cambiando il nome in Teresa; mi è mancato «‘o vicchiariello» che camminava sotto la luna e che, guardando il mare, pensava a Maria che «mo nun ce sta ‘cchiù»; mi è mancato il vento che entrava nelle piazze, rompeva le finestre e portava con sé le voci di chi «vo’ alluccà» ma non può; mi sono mancati i lazzari felici che, per la fatica di tenere le «spalle sotto ‘e casce», non riuscivano più a sentire nemmeno l’odore del mare; mi è mancato quello che andava ad urlare sotto al collocamento già sapendo che se lo erano venduto «pe’ poco e niente» mentre il mare, tutt’oggi, sta sempre là, «tutto spuorco e chin’ ‘e munnezza» ; mi è mancato chi, «c’o cazone rutto», credeva ancora alla rivoluzione e leniva le sofferenze con una chitarra e la propria voce; mi è mancato Pulucenella che, finalmente, si scrollava di dosso quella allegria caricaturale e cominciava ad “arraggiarsi”, a pensare alla guerra e a parlare di libertà; mi sono terribilmente mancati i ferryboat, Annarè, l’ «appucundria ca’ scoppia ogni minuto ‘mpietto», chi a trent’anni ancora non ha capito che le canzoni ti fanno solo fesso, chi è contento con una giornata di sole, chi invece «putesse essere allero cu’ nu speniello ‘mmocc’», chi palesa la sua presenza al tuo fianco anche con un semplice «je sto ‘ccà» o dicendoti «je sto vicino a te».

Caro Pino Daniele, mi mancano quei tuoi modi di raccontare in note. Non mi manchi tu. Non potresti mancarmi tu. La mancanza, fuor di retorica, è un sentimento che sono capace di provare solo per le persone più care. Mi manca il tuo sguardo sul mondo, quello sì, ma è una mancanza con cui convivo da quando, legittimamente, hai fatto altre scelte artistiche. Mi mancano i film che Massimo Troisi girava per le tue canzoni, come insieme “confessaste” davanti ad un Gianni Minà in lacrime per le risate.

Caro Pino Daniele, ti ho conosciuto solo come artista (come la stragrande maggioranza di chi ti ha reso omaggio in Piazza del Plebiscito) e non voglio cadere nella trappola voyeuristica dei signori del marketing, i quali venderebbero ogni istante della tua vita privata pur di lucrare sulla tua morte. La fortuna dei geni come te è quella di sopravvivere alla morte attraverso la propria arte. Per questo non mi manchi. Lascio questo sentimento ai tuoi cari, a chi ti ha voluto bene, a chi ha condiviso con te cose ben più importanti dell’ascolto di un concerto o di un disco. Lo dico senza cinismo ma con immenso affetto, provando a restituire al mio dolore di fan una dimensione non retorica, non enfatizzata, non spettacolarizzata. Per questo, il terzo anniversario della tua morte, è solo l’occasione per ricordare un bluesman forse un po’ sottovalutato dal grande pubblico.

Ed è l’occasione anche per ringraziarti, perché i tuoi personaggi, le tue paure, le tue note e i tuoi tocchi sulla chitarra, me li porto stampati nella mente e li vado a ripescare tutte le volte che mi trovo a passeggiare per Santa Chiara o per le strade desolate del mio rione. La tua musica resta ed è, parafrasando una tua canzone, tutto quel che abbiamo ma anche tutto ciò che ci serve, senza cadere nel feticismo da fans club e negli isterismi collettivi.

Yes, I know my way, caro Pino Daniele! E sulla mia strada, che sia «Terra mia» o un posto qualunque nel mondo, ci saranno sempre in sottofondo le note e le parole della tua musica.

Mario Sica

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