Management, ovvero la perenne gioia di vivere male
Fotografia di Marina Pietrocola

Spesso e volentieri citato come uno dei gruppi musicali più controversi dell’intero panorama musicale nostrano, il duo Romagnoli-Di Nardo, in arte Management, ha deciso di porre una volta per tutte fine al dolore post-operatorio assumendo vesti nuove.

Se con l’album “Un incubo stupendo” (2017) si era intravisto qualche sprazzo di quel processo di mutazione che ha portato la band lancianese ad acquisire una più matura consapevolezza, con la pubblicazione dell’ultima fatica discografica “Sumo” (2020) i moti profondi della sensibilità e della coscienza hanno traghettato i Management, già noti come Management del dolore post-operatorio, verso lidi introspettivi e melanconici dell’animo umano finora non esplorati a dovere.

Copertina di ”Sumo”, ultimo lavoro discografico dei Management

Il cambiamento è parte integrante del processo di sviluppo personale di ciascuno. La realtà è ineluttabile, l’interpretazione soggettiva: ricredersi sulle proprie convinzioni altro non è che il risultato di una lunga riflessione, nel corso della quale si ricevono nuovi input e si percepisce l’ambiente esterno in maniera differente.

Al fine di approfondire l’evoluzione nel tempo di uno dei complessi musicali alfieri della scena indipendente italiana, abbiamo deciso di sottoporre qualche domanda ai diretti interessati. Ecco la nostra intervista al frontman dei Management Luca Romagnoli:

Il nome Management (prima Management del dolore post-operatorio), che avete dato alla vostra formazione, potrebbe sembrare ai più alquanto insolito. Potresti gentilmente raccontarci la vostra storia e le motivazioni di una simile scelta?

«È il nome stesso che abbiamo deciso di attribuirci in fase di avviamento del nostro progetto musicale a descrivere la nostra storia, nonché la nostra essenza più genuina. Management del dolore post-operatorio nasce da un periodo comune di riabilitazione a seguito di un incidente d’auto. Volente o nolente, il gruppo si è difatti formato tra i corridoi di un ospedale dove abbiamo condiviso non solo dolore e sofferenze, ma anche idee e spunti di riflessione. Da qualche tempo a questa parte, abbiamo apportato un cambiamento al nome della band: lo abbiamo accorciato per distaccarci da quell’immaginario collettivo che vedeva i Management come iconoclasti, provocatori e attaccati a scelte estetiche discutibili, non perché non provassimo più alcun legame con una certa dimensione emotiva. A dispetto dei mutamenti, alcuni connotati rimangono sempre e comunque invariati.»

“Il Management non è il mal di vivere, bensì la gioia di vivere male”. Spiegaci cosa vuol esprimere il concetto ripreso nel vostro motto.

«Non possiamo non essere d’accordo con la celeberrima poetessa Alda Merini, la quale sosteneva che la malinconia è la gioia della tristezza. La gioia di vivere male è da sempre parte integrante del nostro vissuto e della nostra musica, saltando dalle nostre pietre miliari agli ultimissimi brani. Scrivere canzoni e salire sul palco, è come una sorta di artifizio che ci consente di convogliare la nostra energia, positiva o negativa che sia, in chi ci ascolta. Scavare in una realtà che non sentiamo a noi congeniale alla ricerca della poesia e dell’arte, viste come unica panacea dei mali del mondo, è la nostra finalità prioritaria.»

Se agli albori della vostra carriera avete avuto modo di farvi conoscere e apprezzare per le riflessioni in chiave polemica e per i sentimenti rancorosi nei confronti della società odierna contenuti nelle vostre liriche, negli ultimi lavori da voi pubblicati lo spirito eversivo sembrerebbe essersi affievolito: l’intimismo compare con maggiore frequenza. Cosa si cela dietro quest’esigenza espressiva e creativa?

«Che vogliate crederci o no, malgrado i cambi di formazione, il modus operandi in fase di composizione è rimasto invariato: Marco scrive la musica ed io il testo. Se questa è rimasta una costante fissa delle produzioni dei Management, ammettiamo che qualche cambiamento in noi e nel nostro modo di intendere e fare musica c’è stato. Sono passati all’incirca otto anni dall’esperienza giovanilistica che ci ha portati alla pubblicazione del primo album in studio “Auff!!”; è anche normale che così sia, non trovate?»

È possibile mutare la propria condotta e allo stesso tempo, conservare la propria essenza al fine di essere coerenti con chi eravamo, siamo o saremo?

«Ciò che comunemente chiamiamo cambiamento, altro non è che l’atto di liberarsi dai propri limiti che, come catene, ci tengono prigionieri di noi stessi. Cambiare non deve significare modificarsi, ma abbattere barriere pur restando fedeli a sé stessi. È solo agendo in tal senso che risulta possibile esprimersi al meglio e dispiegare le ali.»

Il Management, così come molte altre, è una band che o la si ama o la si odia. Avete il supporto di molti, ma al contempo a causa del vostro modo di salire sul palco e delle vostre attitudini personali siete stati – e tuttora siete – oggetto di critiche. Quanto è importante nella vita non badare al giudizio altrui per non rinunciare al proprio status di libertà?

«Nonostante abbia la consapevolezza che non risulta facile, in una scala da uno a dieci direi mille. L’ostacolo principale alla libertà delle persone, quello che causa maggiore sofferenza, è il timore di essere giudicati negativamente. Tra tutte le fobie, la paura della disapprovazione è la più micidiale in quanto non consente all’individuo di esternare appieno la propria sfera emotiva e sensoriale. Per liberarsi da ogni limitazione, è opportuno svolgere un intensivo e costante lavoro su sé stessi.»

Vincenzo Nicoletti

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