Gli eventi del 2008 e la crisi che ha sconvolto l’economia mondiale hanno rappresentato per tutto il vecchio continente uno scossone senza precedenti, sia sul piano economico e sociale che nel dibattito politico-culturale. Da patria dell’equilibrio tra Stato e Mercato, l’Europa diventa il terreno di battaglia sul quale democrazia, diritti e solidarietà cadono sotto i colpi dei vincoli di bilancio, dell’austerità, della precarizzazione del lavoro. 

A differenza degli Stati Uniti, l’Unione Europea non è uno Stato federale ma ha una moneta unica. È un’anomalia che rende difficile intervenire nel momento in cui si manifestano crisi economico-finanziarie tra gli Stati membri in quanto i meccanismi di trasferimento di risorse tra Stati in difficoltà e Stati con indici finanziari positivi non sono automatici, ma devono prima passare da decisioni politiche assunte in sede intergovernativa, vale a dire dal Consiglio dell’Unione europea all’interno del quale siedono capi di Stato e di Governo.

Ed infatti, gli strumenti adottati per far fronte alla crisi finanziaria ed economica sono stati legati ad un meccanismo di “urgenza” che ha determinato la loro negoziazione e discussione in sede intergovernativa (abitudine tuttora diffusa, come dimostrano i vertici bilaterali). Esempio lampante è l’approvazione del Fiscal Compact: si tratta di un vero e proprio trattato “parallelo” stretto al di fuori del diritto dell’Unione e delle modalità previste dal trattato di Lisbona. Con il Fiscal compact un’ideologia economica diventa legge. Il nuovo Trattato impone, come noto, due regole fondamentali: da un lato, il conseguimento del pareggio di bilancio, dall’altro, la previsione di un percorso di riduzione del debito pubblico rispetto al PIL. Le misure a tal fine adottate riguarderanno in particolare: l’introduzione del pareggio di bilancio come vincolo all’interno degli ordinamenti nazionali; l’avvio di drastiche misure di abbattimento del debito pubblico; il ricorso a “riforme strutturali” sul piano sociale. Benché se ne dica, quindi, il processo decisionale che si è sviluppato nel periodo della crisi ha visto una sorta di emarginazione delle istituzioni sovranazionali. Il perimetro decisionale, infatti, è stato strettamente controllato dal Consiglio europeo e in particolare dai capi di governo, gli stessi che nei discorsi pubblici nei propri Paesi scaricavano le responsabilità di scelte difficili sull’Europa.

L’aspetto che meno si conosce, e di cui pure dovremmo riflettere quando cerchiamo di affrontare il tema europeo in un dibattito ampio, è che i quesiti posti a referendum in Grecia non sono diversi dalle interrogazioni, dalle relazioni e dal lavoro che lo scorso Parlamento europeo ha affrontato, sia una commissione speciale che in sede plenaria“La gravità della crisi economica e finanziaria e le politiche di aggiustamento nei quattro Paesi in questione hanno contributo ad aumentare la disoccupazione e le percentuali di posti di lavoro persi nonché il numero dei disoccupati di lungo periodo ed hanno determinato in alcuni casi un peggioramento delle condizioni di lavoro”; si può ulteriormente leggere la preoccupazione per “la comparsa di nuove forme di povertà che interessano il ceto medio e quello lavoratore […] e che i tagli alle prestazioni sociali e alle indennità di disoccupazione, nonché la riduzione delle retribuzioni dettati dalle riforme strutturali, stanno innalzando i livelli di povertà”[1].

Queste parole non sono state pronunciate da un pericoloso sovversivo, bensì sono scritte in una risoluzione votata dal Parlamento europeo. Gli esiti dell’indagine riportano un quadro di condanna all’organizzazione della Troika. Le tre istituzioni indipendenti, infatti,  hanno una distribuzione non equilibrata delle responsabilità, mandati differenti e strutture negoziali e decisionali con diversi livelli di responsabilità, il che si traduce in una mancanza di controllo adeguato e di responsabilità democratica.

La rela­zione pre­mette una breve ma inci­siva cri­tica al pro­cesso con­si­de­rato fon­da­men­tal­mente non demo­cra­tico (mar­gi­na­liz­zato il Par­la­mento euro­peo, le altre isti­tu­zioni hanno agito di con­certo for­mando un fronte comune senza vere basi di legit­ti­mità, e senza inclu­dere stru­menti e con­sul­ta­zioni volte alla tutela dei diritti sociali), poi passa in ras­se­gna le disa­strose rica­dute nei campi: dell’occupazione (abbas­sa­menti sala­riali, più pre­ca­rietà, disoc­cu­pa­zione gio­va­nile mas­sic­cia), di povertà ed esclu­sione sociale (tagli al sociale inse­riti espli­ci­ta­mente nelle con­di­zioni dell’aggiustamento eco­no­mico), abban­dono sco­la­stico e (scarso) dia­logo sociale – cioè con le auto­rità dei Paesi interessati.

L’attività di indagine del parlamento europeo è, quindi, molto importante per diversi aspetti che riguardano sia il profilo strettamente economico che quello sociale e democratico: partendo dalle prescrizioni previste dal Trattato e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, il parlamento si fa promotore di un mutamento di paradigma sociale, assumendo il ruolo di custode del modello sociale europeo. Tra le istanze su cui l’assise rappresentativa fa leva e che sono divenute parte integrante del trattato troviamo “la giustizia sociale”, “lo sviluppo sostenibile dell’Europa”, “la crescita economica equilibrata”, l’impegno dell’Unione contro “l’esclusione sociale e le discriminazioni”. Lo stesso principio dell’economia di mercato aperta e in libera concorrenza, con il trattato di Lisbona viene sostituito, non soltanto dal punto di vista lessicale, da quello della “economia sociale di mercato”. Innanzitutto il parlamento europeo richiama l’attenzione sul carattere ad hoc del meccanismo di salvataggio e della troika, il cui mandato è apparso fin da subito poco chiaro, oltre che carente sotto il profilo della trasparenza e del controllo democratico, a partire dall’anomala funzione svolta dall’Eurogruppo e dalla centralità dell’approccio intergovernativo.

La questione democratica, la legittimità delle scelte, la responsabilità, sono temi che le istituzioni prettamente europee, quelle più democratiche e meno legate agli interessi di tipo nazionale, hanno posto con forza in questi anni, nell’assenza del clamore mediatico. La condanna alla gestione di una crisi senza precedenti, quindi, non vuol dire meno Europa, bensì più Europa, maggiore condivisione, maggiore democrazia, che è ciò che distingue quel “no” dal populismo di chi vorrebbe usarlo a proprio consumo. All’Europa oggi serve una nuova filosofia capace di rispondere alle domande dei cittadini europei ed ai nuovi bisogni dettati dalle sfide della globalizzazione: in altri termini, gli europei hanno bisogno di una nuova motivazione convincente, un’Unione europea capace di governare le tensioni globali ed in grado di muoversi come attore globale.

    

[1] Risoluzione del parlamento europeo del 13 marzo 2014 su aspetti occupazionali e sociali del ruolo e delle attività della troika (BCE, Commissione e FMI) relativamente ai paesi dell’area euro oggetto di un programma.

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