Il Woke Washing è uno esclusivamente uno specchietto per le allodole
Fonte: www.cercatoridiatlantide.it

La società occidentale contemporanea è sempre più caratterizzata da svariate forme di disuguaglianza: sociali, economiche, politiche, ambientali. Ragion per cui sono emersi attori sociali che mettono in discussione questa società e si pongono il preciso obiettivo di far cessare queste diseguaglianze nel corso del tempo. Di conseguenza, sempre più aziende stanno ritenendo opportuno mettersi al passo con questa realtà, creando prodotti che possano accogliere e rappresentare le rivendicazioni sociali. Ma quando i marchi mostrano il loro sostegno per cause giuste, non stanno cinicamente depredando la nostra coscienza attraverso la messa in atto di un fenomeno noto come “woke washing”, ossia l’appropriazione di valori etici e progressisti come mera forma di pubblicità?

Non è scontato, infatti, che i movimenti che lottano per un cambiamento della società siano necessariamente contro-egemonici, poiché il capitalismo non è una “struttura” trans-storica e passiva che governa il sociale, ma al contrario è un sistema dinamico e particolarmente attento alle opposizioni che ne minacciano l’esercizio del suo potere. Una componente di questo sistema di difesa può essere senza alcun dubbio individuata nel fenomeno del “brand activism” (una forma di woke washing), che non indica la volontà delle aziende di ripulirsi la coscienza o di stare al passo con i tempi – come provano vanamente a sostenere i diretti interessati – , ma soltanto un loro coinvolgimento attivo sulla scena politica in modo da sfruttare le persone e le loro rivendicazioni etiche a scopo di marketing.

Il capitalismo dimostra tutta la sua capacità di adattamento: in un momento in cui tante persone, soprattutto giovani, sentono abbastanza legittimamente che la società in cui vivono non funziona, le grandi imprese fanno appello al woke washing per sfruttare il loro senso di idealismo. Le aziende sono, infatti, guidate dal profitto, non certamente dall’ambizione di poter cambiare il mondo. Creano strategie comunicative volutamente ingannevoli, per invitare gli attivisti a riconoscersi nei loro marchi e così conquistare nuove fette di mercato attraverso gli slogan e simboli dell’attivismo. D’altra parte, non c’è una vera eticità e genuinità dietro questo cambiamento, ma solamente la precisa volontà di creare un nuova immagine di facciata in modo da nascondere il “lato oscuro” della gestione aziendale capitalistica convenzionale.

In sostanza, le rivendicazioni di questi movimenti sociali e i loro stili di vita vengono visti sempre di più dalle imprese come un’opportunità di profitto da cogliere. In questo modo, il malessere nei confronti dell’attuale società finisce per essere assorbito e trasformato in consumo di massa, che addomestica il potenziale di conflittualità sociale di questi movimenti al punto tale da trasformare le loro richieste in una moda vantaggiosa e compatibile con le politiche neoliberali. Come da copione, il sistema incoraggia i soggetti più disparati (che vanno dal settore dell’abbigliamento a quello alimentare, a seconda delle rivendicazioni) a lucrare su quelle che inizialmente potevano essere stimate a tutti gli effetti come delle serie rivendicazioni e a fidelizzare la domanda attraverso persuasive e fuorvianti strategie di marketing. In questo modo, dietro a prevedibili retoriche etiche e prescrizioni morali che caratterizzano il woke washing, viene garantita così la possibilità di proseguire nella incessante ricerca di profitto, senza realmente mettere in discussione le logiche che fanno funzionare il sistema economico capitalista.

Pertanto il woke washing può anche alimentare un’illusione del cambiamento sociale. La responsabilità sociale delle aziende non fa altro che rendere negoziabili alcuni aspetti delle rivendicazioni, in modo da disarticolare i movimenti sociali attraverso la creazione di una frattura interna. Il loro “imborghesimento” cancella l’identità collettiva originale e logora ulteriormente la capacità di mobilitazione. Dunque è inutile, se non addirittura deleterio, aspettarsi che i marchi prendano pubblicamente posizione per il cambiamento sociale, poiché il vero progresso si ottiene attraverso la protesta e il conflitto, non per merito di marchi (falsamente) ben intenzionati.

Gabriele Caruso

Gabriele Caruso
Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, mi occupo soprattutto di indagare la politica italiana e di far conoscere le rivendicazioni dei diversi movimenti sociali. Per quanto riguarda la politica estera, affronto prevalentemente le questioni inerenti al Regno Unito.

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