Come si è arrivati al colpo di stato in Sudan
Fonte immagine: Il Manifesto/Getty Images

All’alba del 25 ottobre scorso, i militari guidati dal generale Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, Presidente del Consiglio Sovrano, hanno arrestato il Primo ministro del Sudan Abdallah Hamdok, insieme a diversi altri componenti civili del governo, tra cui i titolari dei dicasteri dell’Industria e dell’Informazione. Poche ore dopo l’arresto, il generale ha dichiarato che l’intervento dell’esercito era finalizzato a porre un argine all’instabilità politica del Paese. Il governo è stato, di conseguenza, sciolto ed è stato dichiarato lo stato di emergenza nazionale. In pratica la transizione democratica in corso da ben due anni, ha lasciato spazio a un vero e proprio colpo di stato militare.

Già poche ore dopo l’arresto del Primo Ministro, i militari hanno dovuto fronteggiare l’ira della folla che si è riversata nelle strade della capitale Khartoum e di altre città maggiori per protestare contro il colpo di stato. Le vittime delle manifestazioni sono ormai decine e per questo motivo i gruppi per la democrazia hanno invitato i cittadini ad evitare gli scontri con le forze armate e di protestare pacificamente per evitare eventuali ripercussioni. Nel frattempo i soldati hanno bloccato le strade, chiuso i ponti e transennato l’aeroporto chiudendo i voli internazionali. Servizi come internet e le reti telefoniche funzionano a singhiozzi e la già precaria situazione economica e sanitaria del Paese potrebbe subire un rapido peggioramento nel giro delle prossime settimane.

Per ora le notizie circa il destino degli uomini di governo sono abbastanza confuse. Alcuni giornali hanno fatto sapere che il Primo Ministro e i titolari dei dicasteri sono tornati nelle rispettive case, dopo essere stati arrestati e trattenuti dalle forze armate per alcuni giorni.

Secondo gli analisti di politica internazionale, in Sudan quella del golpe militare era una delle ipotesi sul tavolo da diverso tempo ormai, tanto che lo scorso 21 settembre le autorità governative civili avevano annunciato al Paese di aver sventato un tentativo di colpo di stato organizzato da alcuni militari fedeli all’ex regime. Era solo questione di tempo, insomma, e un altro golpe sarebbe riuscito nell’intento di mettere fine al debole governo di transizione. Restano da comprendere i motivi per cui i militari hanno ritenuto opportuno e necessario interrompere il percorso intrapreso da un Paese profondamente instabile come il Sudan, falcidiato da divisioni interne e da una profonda crisi economica e che soltanto negli ultimi tempi aveva intrapreso l’accidentato percorso di stabilizzazione.

Un colpo di stato annunciato

Nonostante un golpe sia sempre un epilogo imprevedibile, quello avvenuto in Sudan, secondo gli esperti, rappresenta solamente la celeberrima “ciliegina sulla torta” di una situazione davvero difficile, in cui militari e civili sono stati costretti a condividere il potere, finendo molto spesso per scambiarsi recriminazioni reciproche, a stemperare tensioni continue e a dover fronteggiare una situazione economica sempre più difficile ricorrendo a provvedimenti che per forza di cose devono incidere sugli stessi militari, i quali detengono i principali asset produttivi in Sudan.

Tuttavia, non è stata l’economia a far crollare il debole governo di transizione democratica. Da diversi mesi, ormai, gli apparati militari erano sotto pressione a causa di un grande progetto di riforma delle forze armate avviato dall’esecutivo di Hamdok, il quale nelle sue intenzioni avrebbe voluto epurare l’esercito dai fedelissimi dell’ex regime di Omar al-Bashir. Un sentore di un probabile golpe era già arrivato, infatti, poche settimane prima, quando il 21 settembre il governo annunciò di aver sventato un tentativo di colpo di stato. Inoltre, la settimana prima del golpe alcuni cittadini avevano dato vita a un sit-in di fronte al palazzo presidenziale a supporto dei militari e contro i “politici corrotti”, una messinscena per legittimare ciò che sarebbe avvenuto subito dopo.

Il golpe, dunque, era nell’aria. Il Sudan ha una lunga tradizione di colpi di stato. Basti pensare che ne ha subiti uno ogni tre anni, ben 17 dall’indipendenza, avvenuta nel 1956 dal Regno Unito. Nello specifico, sono passati soltanto due anni da quando l’ex dittatore (anche lui golpista) Omar al-Bashir fu estromesso dal potere dopo una sanguinosa rivoluzione culminata con l’uccisione di 87 persone da parte dei militari che spararono sulla folla. I civili, poi, mediarono con l’esercito per mettere fine alle violenze e si giunse a un accordo di transizione democratica “soft”, in cui le forze armate avrebbero condiviso il potere con i civili.

Il “patto” è venuto meno lo scorso 21 settembre, quando i militari vicino all’ex dittatore hanno cercato di rovesciare il governo di Hamdok. Non che qualcuno avesse riposto particolare fiducia in questa strana alleanza, dato che per ben due anni i governanti hanno vissuto sotto la pressione di non poter attuare alcuna riforma completa e radicale per diminuire l’influenza dei potentati locali, ai cui vertici ci sono sempre uomini dell’esercito, limitandosi a interventi di portata trascurabile e con efficacia limitata. La riorganizzazione del Paese, insomma, è rimasta ferma fino alla riforma dell’esercito, la quale avrebbe ridimensionato il potere dei militari sia dal punto di vista politico che economico.

Come in ogni “democratura” che si rispetti, anche in quella sudanese gran parte del potere economico è nelle mani delle forze armate. Si stima che circa l’80% dell’economia sommersa locale sia controllata da uomini vicini alle Forze di Supporto Rapido, un’organizzazione paramilitare del Sudan creata dall’ex dittatore al-Bashir, concepita come una polizia militare ausiliaria ma di fatto una forza autonoma che non rientra nei ranghi dell’esercito regolare. Le attività che sono state a loro collegate spaziano dall’estrazione mineraria a quella del gas, passando per il redditizio commercio d’armi.

Le conseguenze internazionali del golpe in Sudan

La fine del governo di transizione guidato da Hamdok ha suscitato profonda apprensione nell’opinione pubblica occidentale soprattutto per i progressi che la democrazia aveva compiuto nello stato. Basti pensare che nel maggio 2020, l’esecutivo aveva vietato il ricorso a una pratica molto comune nelle società tribali, cioè la mutilazione genitale femminile, ed era intervenuto sulla legge coranica (la sharia) attuando una politica fatta di un lento ma inesorabile smantellamento dei suoi precetti fondamentali all’interno dell’ordinamento sudanese.

Il primo governo a reagire duramente alla notizia è stato quello americano, il quale ha deciso di sospendere gli aiuti economici fino a quando la democrazia non sarà ripristinata (dello stesso avviso è stata la Banca Mondiale). Una mossa che complica ulteriormente la già tragica situazione economica del Sudan, duramente colpito dalla pandemia e che soltanto di recente aveva cominciato a migliorare grazie soprattutto alla fine delle sanzioni statunitensi revocate dopo la caduta della dittatura di Omar al-Banshir e al costante flusso di finanziamenti. L’irritazione degli americani, però, non arriva dal golpe in sé bensì dal fatto di non esserne stati informati. Pochi giorni prima dell’accaduto, infatti, l’inviato americano Jeffrey Feldman si era recato a Khartoum per cercare una mediazione tra civili e militari. L’inviato è ripartito convinto di aver raggiunto lo scopo, senza sapere cosa sarebbe accaduto il giorno successivo. Il Dipartimento di Stato ha giudicato la mossa dei militari come uno “schiaffo a Biden“.

Gli alleati del Sudan, in particolare l’Arabia Saudita e l’Egitto (con cui il generale golpista coltiva un rapporto più che decennale) hanno preferito non commentare quanto accaduto. Anche la Cina è stata dello stesso avviso, limitandosi a sollecitare un generico dialogo tra le varie fazioni sudanesi. La Russia, invece, nella persona del ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, ha commentato il colpo di stato in Sudan ribadendo che quanto accaduto non rappresenta altro che un “naturale corso degli eventi” causato da una serie di “politiche fallimentari” e da “continue ingerenze straniere” che hanno destabilizzato la situazione interna.

L’attenzione dei russi e dei cinesi, comunque, resta alta. Mosca coltiva importanti interessi nel Paese che vanno ben oltre le parole del ministro Lavrov. Da anni Mosca coltiva il sogno di uno sbocco marittimo sul Mar Rosso. I Paesi avevano raggiunto un accordo nel 2020 per Port Sudan, dove i russi avrebbero potuto dislocare unità navali a propulsione nucleare per 25 anni. Lo scorso settembre, però, Khartoum aveva congelato il progetto in nome di un avvicinamento agli Stati Uniti effettuato della “parte civile” del governo sudanese.

Anche i cinesi hanno numerosi interessi in loco, dato che il Sudan è una delle tappe della Belt and Road Initiative. I porti sudanesi rientrano a pieno nel progetto di espansione economica e geopolitica del dragone tanto che di recente la China Harbour Engineering ha offerto mezzo miliardo di dollari per espandere le strutture del porto di Suakin, sul Mar Rosso. Pechino aveva già investito diversi capitali per sviluppare la ferrovia Khartoum-Port Sudan e la diga di Merowe e ha fornito costanti finanziamenti al Paese durante il periodo delle sanzioni. La deposizione del dittatore, che la Cina considerava un alleato, non ha comunque interrotto i rapporti con la politica locale, soprattutto con il Consiglio Sovrano preseduto dai militari.

Sarà davvero importante seguire la partita diplomatica in corso in Sudan, dove gli Stati Uniti hanno subito uno scacco matto politico inaspettato e Cina e Russia si giocano la partita dell’influenza geopolitica. Il minimo comune denominatore sarà la ricerca di una stabilità politica che non necessariamente coinciderà con la soluzione democratica.

Donatello D’Andrea

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