Not in my back yard (“non nel mio giardino“) è l’espressione usata per riferirsi all’opposizione di una comunità all’installazione sul proprio territorio di impianti potenzialmente pericolosi per la salute e l’ambiente. Essa cattura la complessità del dibattito su alcuni temi, come quello dei rifiuti nucleari e delle modalità per smaltirli. Da un lato infatti, ogni paese produce una certa quantità di queste scorie, che vanno trattate con procedure specifiche e controllate. Dall’altro c’è l’interesse della popolazione alla salubrità del territorio e alla propria incolumità. La necessità di bilanciare interessi in conflitto – quello statale e quello dei cittadini – rende importante che decisioni del genere coinvolgano attivamente le comunità locali.
Secondo l’inventario nazionale Isin (Istituto nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione) del gennaio 2020, in Italia sono presenti 30.906 metri cubi di rifiuti radioattivi. Le fonti di produzione sono varie, a partire dalle quattro centrali nucleari di Caorso (Piacenza), Trino (Vercelli), Borgo Sabotino (Latina) e Garigliano (Caserta) che, dopo il referendum sul nucleare del 1987, sono entrate in un processo di progressivo smantellamento. Le scorie ad alta attività di queste centrali – cioè il combustibile esaurito dei reattori – sono state deferite all’estero, mediante accordi con Francia e Gran Bretagna.
La maggior parte dei rifiuti radioattivi attualmente prodotti proviene da attività mediche e industriali e dagli impianti per il ciclo del combustibile. In medicina nucleare, ad esempio, l’uso delle sostanze radioattive aiuta a individuare le cellule tumorali. I materiali di scarto sono le siringhe, i contenitori, gli oggetti esposti alle radioterapie, ma anche gli indumenti dei tecnici radiologi. Solitamente le stesse strutture ospedaliere hanno anche un deposito temporaneo che gli consente lo smaltimento in sicurezza.
Ad oggi in Italia ci sono depositi di scorie nucleari di natura provvisoria concentrati in alcune aree del Paese. Particolare è il caso del Piemonte che, oltre all’ex centrale di Trino, ospita i due depositi Livanova e Avogadro, l’impianto EUREX di Saluggia, usato in passato per scopi sperimentali e quello di Bosco Marengo, dove si produceva del combustibile nucleare. Sono tutte strutture in fase di smantellamento. La natura provvisoria dei depositi esistenti in Italia produce una serie di problemi: la necessità di cicli continui di manutenzione e messa in sicurezza delle aree, e conseguente lievitazione dei costi.
A livello europeo la direttiva Euratom del 2011 ha istituito un quadro comune per la gestione del combustibile e dei rifiuti nucleari. Oltre all’adozione di un programma nazionale, i Paesi membri devono prevedere piani concreti per lo smaltimento per evitare l’accumulo incontrollato di queste scorie in futuro. Per quanto riguarda quelle ad alta attività, è necessario che gli Stati si dotino di un deposito di smaltimento geologico: l’Italia è l’unico Paese a non avere ancora in programma la costruzione di questa struttura. Peraltro il governo italiano è stato anche sottoposto a procedura di infrazione e condannato dalla Corte di Giustizia nel luglio 2019 per non aver adottato e trasmesso il proprio programma nazionale per la gestione e lo smaltimento dei rifiuti nucleari.
Il progetto di deposito nazionale
Solo a inizio gennaio Sogin, società pubblica che gestisce lo smaltimento e lo stoccaggio dei rifiuti nucleari, ha pubblicato la Cnapi, la Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee a ospitare il deposito nazionale. Elaborato nel 2015, il documento è stato posto sotto segreto di Stato. L’idoneità delle aree è stata individuata sulla base di alcuni parametri individuati dall’Isin che escludono alcune zone del Paese (perché a elevato rischio sismico o idrogeologico, o perché di interesse artistico, archeologico o naturalistico) e ne guidano la localizzazione.
In questa carta sono state individuate 67 aree in sette regioni: Piemonte, Toscana, Lazio, Sardegna, Sicilia, Puglia e Basilicata. Sogin ha avviato il procedimento di consultazione pubblica, per consentire a tutti gli enti locali e alle associazioni che rappresentano interessi diffusi (quelle ambientaliste, per esempio), di presentare le proprie osservazioni. Il termine è stato prorogato fino al 5 luglio, ed entro 4 mesi dalla scadenza dovrebbe tenersi il seminario nazionale, un dibattito pubblico più strutturato sulla realizzazione del deposito. Alla fine della consultazione si giungerà alla Cnai (Carta nazionale delle aree idonee), un ulteriore documento che localizza in maniera più precisa le aree. In quest’ultima fase, saranno gli stessi comuni inclusi nella Carta a potersi candidare.
Il deposito ospiterà 78 mila metri cubi di rifiuti ad attività bassa e molto bassa; per il completo decadimento delle sostanze radioattive ci vorranno 300 anni. Il progetto prevede anche un Csa, Complesso stoccaggio alta attività, dove verranno immagazzinati i rifiuti ad alta attività nell’attesa della costruzione di un deposito geologico: la modalità di conservazione ottimale di questo tipo di rifiuti, infatti, è l’interramento. Dall’individuazione definitiva dell’area, Sogin stima che ci vorranno quattro anni per la costruzione del deposito.
Il dibattito sul deposito: pro e contro
Il dibattito è aperto, tra favorevoli e contrari alla struttura. La commissione bicamerale Ecomafie ha sottolineato l’utilità della realizzazione e la ritiene necessaria per controllare i costi di gestione della filiera dello smantellamento, stimati in 7,9 miliardi di euro. Inoltre si evidenzia l’opportunità in termini di posti di lavoro: 4 mila all’anno per la costruzione e mille per la gestione.
Greenpeace Italia ha invece reso nota la sua opposizione al deposito nazionale. In particolare l’associazione ambientalista pone l’accento sulla contaminazione di nuove aree del Paese, quando si potrebbe prevedere una più corretta gestione e messa in sicurezza delle strutture già esistenti. Inoltre Greenpeace contesta il fatto che non sia stata condotta una Vas (Valutazione ambientale strategica), un procedimento partecipato che avrebbe consentito un’analisi costi-benefici del deposito con la partecipazione delle comunità e degli enti interessati, preventivo alla pubblicazione della Cnapi.
Anche alcune regioni dove sono state localizzate le aree idonee si sono opposte. È il caso della Puglia, dove il presidente della giunta Michele Emiliano ha costituito un tavolo di coordinamento per vagliare tutti gli argomenti contrari all’installazione della struttura nell’Alta Murgia. Problematica anche la posizione della Toscana, dove si contesta la localizzazione vicino ad aree di rilevante interesse artistico, come a Pienza, nel senese.
Trovare il modo corretto per gestire i rifiuti nucleari – un problema che non riguarda solo questo tipo di scorie – monitorarne lo smaltimento, rispettare tempi certi: sono queste le sfide che aspettano l’Italia. Rimane di centrale importanza il dialogo costante con le comunità locali e le associazioni in ogni passaggio decisionale della necessaria scelta del “giardino”.
Raffaella Tallarico