Da bambini, alla domanda ‘cosa vuoi essere da grande?‘ si risponde usando molta fantasia e poca ragione. Quando si cresce i sogni diventano più nitidi, le aspirazioni più chiare e si pensa a cosa voler essere con maggiore maturità. Si compiono scelte di vita consapevoli, cercando di realizzarsi, credendo di sapere a cosa si va incontro. Che ogni lavoro implichi diritti, doveri, responsabilità e pericoli è ben noto a tutti. Il militare sa che può essere ucciso, la parrucchiera che può lasciare clienti insoddisfatti, l’archiettetto che può sbagliare calcoli.
Nello Trocchia, invece, giornalista di professione, chissà cosa ha provato nel sapere che per compiere il suo dovere, per aver realizzato il proprio sogno, scrivere di ciò che lo circonda, potrebbe essere ucciso.

Nell’Italia di oggi, al 73esimo posto nella classifica mondiale della libertà di stampa, tra Moldavia e Nicaragua, bisogna fare ancora i conti con una realtà fatta di mafia, ‘ndrangheta e camorra, vergognoso cartello del nostro paese e uno dei principali motivi di censura.

Elencare diventa doloroso quando si tratta di persone, in questo caso giornalisti, portabandiera di verità e informazione. La lista è lunga, le minacce sono tante, i giornalisti sotto scorta altrettanti. Che si tratti di Roberto Saviano, di Sandro Ruotolo, Federica Angeli o Rosaria Capacchione, la sensazione è sempre la stessa: dispiacere e vergogna.

L’ultima minaccia arriva proprio a Trocchia, cronista campano nativo di Nola, collaboratore per L’Espresso e Il fatto quotidiano nonché autore di due libri, ‘La Peste‘ scritto con Tommaso Sodano dove si racconta il disastro rifiuti in Campania e ‘Roma come Napoli‘, scritto con Bonaccorsi e Sina, sul grande affare rifiuti nel Lazio. Il suo lavoro viene ricompensato con una frase schietta, che i militari hanno registrato in una conversazione tra un boss della camorra incarcerato e suo fratello, circa un mese fa: “A quel giornalista gli devo spaccare il cranio.”

Come se la notizia non fosse già abbastanza disdegnosa, si aggiunge una verità eclatante. Che supera i confini dell’assurdo: dopo trenta giorni dall’intercettazione, dai contenuti chiari più che mai, inviata prontamente alla Procura antimafia di Napoli, a Trocchia non è stata ancora affidata alcuna protezione. L’iter in questi casi è scandito da diverse fasi: il fascicolo dovrebbe passare dalla Procura alla Prefettura, luogo in cui il Prefetto dovrebbe convocare l’organo preposto alla protezione delle persone ‘a rischio’: il Comitato per l’ordine e la Sicurezza. Ma in questo caso non è successo. Il giornale ‘L’espresso‘, che ha contattato la Prefettura per maggiori informazioni, è stato ripagato con una risposta poco esaustiva: ‘ciò di cui si discute nei comitati dell’ordine e la sicurezza è materia riservata‘.

Intanto la minaccia c’è ed è più pericolosa che mai, se si pensa che il posto dove lavora Trocchia è stato già individuato dal clan. Il 2 Luglio Pietro Grasso, aprendo la conferenza internazionale promossa da ‘Ossigeno per l’informazione‘, dichiarava: “Se a ciascun giornalista si chiede di essere libero e di assolvere un così alto compito per la vita democratica di un Paese civile si deve, allo stesso tempo, assicurargli in qualunque circostanza la possibilità di poterlo essere completamente“. Ma le parole restano solo parole e il nostro paese resta sempre immobile.

Nella sua biografia Trocchia cita la sua frase preferita, tratta dal film Fortapasc, su Giancarlo Siani, per lui ‘faro ed esempio‘: “Gianca’ ‘e notizie so’ rotture ‘e cazz”. Ma per fortuna per persone come lui, questo non è importante.

Alessandra Vardaro

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