Il futuro dell'Italia passa anche dal ministero del Mare Musumeci governo Meloni
Fonte immagine: ASSONAVI

Il governo Meloni è ufficialmente entrato in carica. La squadra dei ministri, completata con le nomine di sottosegretari e viceministri, ha giurato di fronte al Presidente della Repubblica e si prepara ad affrontare uno dei periodi più difficili della storia recente del Belpaese. Si è tanto discusso, poi, delle peculiari denominazioni identitarie e autarchiche date ai nuovi dicasteri: dalla Sovranità alimentare al Made in Italy, passando per la Natalità e il ministero del Sud e del Mare. In realtà quest’ultimo, affidato a Nello Musumeci – ex Presidente della Regione Sicilia – al di là della facile ilarità che potrebbe suscitare, avrebbe potuto rappresentare una svolta positiva, se dotato di poteri ampi e tangibili.

Inoltre, non basta cambiare nome per rendere operativo un ministero. Per cambiare le competenze e chiarire “Chi fa cosa” ci vogliono dei decreti. E sarà proprio questo il primo vero ostacolo per Giorgia Meloni, prima della legge di bilancio e di qualsiasi altro intervento che presuppone sia stata fatta chiarezza sul da farsi all’interno dei dicasteri. Si tratta di nodi molto importanti da sciogliere che concernono deleghe e funzioni incerte. Tajani avrebbe ceduto la delega al commercio, da tempo in capo alla Farnesina e che dovrebbe passare al MISE – assieme a quella dello spazio – mentre si credeva che sul mare, Giorgia Meloni intendesse dotare il nuovo dicastero di un ampio controllo dei porti e della Guardia Costiera. Non è andata così. La struttura in capo a Nello Musumeci è in realtà uno scatolone vuoto, svuotato di poteri e di deleghe e già commissariato da una serie di enti e comitati che risponderebbero direttamente a Palazzo Chigi.

Chiunque conosca la storia mediterranea e abbia dimestichezza con la geografia, sa benissimo che un ministero del Mare sarebbe servito al Paese come il pane. Alla fine, però, la situazione lascia intendere che si tratti dell’ennesima occasione persa di un governo, l’ennesimo, che ha deciso di abbandonare il mare, declassandolo a un bacino di voti per questioni poco strategiche e fortemente propagandistiche, come l’immigrazione. Una scelta sbagliata e che, in uno scenario geopolitico come quello mediterraneo, potrebbe far davvero male all’Italia.

Mai voltare le spalle al mare

L’Italia è bagnata per tre quarti dal mare e con 8mila chilometri di costa. Basterebbero queste semplici nozioni geografiche per chiarire come la penisola abbia un legame del tutto particolare con il Mediterraneo. Nonostante ciò, negli ultimi tre decenni la classe dirigente italiana ha voltato le spalle al mare per dedicarsi soprattutto all‘Europa del Nord. È vero che Germania, Francia, Svizzera e Austria fanno insieme un terzo del nostro export e che i grandi imprenditori padani preferiscono rivolgersi alla gomma o alle rotaie e non al mare – soprattutto a causa della scarsa interoperabilità dei porti – ma urge ricordare che guardare in una sola direzione, cioè al nord, ignorando tutto il resto non è una scelta saggia e lungimirante, soprattutto se il 25% del PIL italiano e circa 200mila imprese dipendono dal mare.

Il ministero del Mare, comunque, non è una novità italiana. Altri Paesi del G20 possiedono un dicastero dedicato alle proprie acque marittime: India, Corea del Sud, Messico e Indonesia, per citarne alcuni. Anche Roma, a dire il vero, in passato aveva qualcosa di simile: il ministero della marina mercantile, il quale esistette per circa cinquant’anni di storia repubblicana e venne soppresso soltanto nel 1993, in seguito alla spending review conseguente alla crisi economica e ai primi sussulti di Tangentopoli. All’inizio dell’ultimo decennio del secolo scorso, l’ex ministro della marina mercantile, Giovanni Prandini, senatore democristiano di Brescia, aveva avviato un’iniziativa proprio in questo senso, cioè un ministero del Mare, alludendo proprio alle necessità di un Paese dotato di migliaia di km di coste e che “vive nel mare”, cioè che coltiva relazioni interne e internazionali attraverso i porti, l’industria cantieristica, la pesca e il turismo.

Questo esempio tratto dagli ultimi anni della Prima Repubblica è utile a chiarire come, nella seconda metà del Novecento, la classe dirigente italiana aveva basato la propria politica estera soprattutto sull’importanza data al mare. Da Aldo Moro, dominus incontrastato – assieme a Fanfani – della politica estera italiana, rivolta principalmente ai Paesi del bacino del Mediterraneo, a Bettino Craxi, passando per Enrico Mattei, il più visionario degli imprenditori italiani, che costruì il suo successo, e quello del Belpaese, proprio sulla sponda meridionale del Mediterraneo.

Se l’Italia non si occuperà del Mediterraneo, sarà il Mediterraneo ad occuparsi dell’Italia. Oltre l’economia, la politica e il legame culturale c’è anche la geopolitica con le sue leggi inesorabili. Il ruolo di primo piano occupato da Roma all’interno del bacino marittimo che va da Gibilterra a Cipro, si è progressivamente indebolito in favore di Paesi più giovani e agguerriti, alla continua ricerca di canali di sbocco per la propria indomabile aggressività. Questo è il caso della Turchia di Erdogan, che guarda al mare come canale di sfogo per i propri grattacapi interni (inflazione, dissenso crescente, questione curda), ed è anche quello dell’Egitto, il quale punta sugli interessi energetici per acquisire legittimazione a livello internazionale.

Tornare a guardare il mare non come un ostacolo ma come un’opportunità, non significa approcciarsi al Mediterraneo con fare coloniale o imperialista. L’Italia è un Paese mediterraneo, e non può negare la sua natura. Guardare soltanto al Nord e alla Mitteleuropa adottando un atteggiamento snobistico verso la nostra storia, significa condannarsi alla marginalità economica e geopolitica, perdendo numerose opportunità di sviluppo e di affermazione internazionale.

Ad oggi le infrastrutture portuali italiane sono tra le più importanti del Mediterraneo. Porti come Genova, Livorno, Cagliari, Gioia Tauro e Trieste rappresentano il meglio che il Belpaese può offrire nella movimentazione dei container, senza dimenticare la loro crescente importanza come hub energetici. Le rinfuse liquide rappresentano per l’Italia la più importante categoria merceologica in termini di volumi. Basti pensare che nei porti italiani vengono movimentati circa 190 milioni di tonnellate di prodotti petroliferi ed energetici, contro i 45 milioni della Germania e i 140 milioni della Francia. Per non parlare dell’importanza della cantieristica. Ovviamente tali infrastrutture andrebbero ulteriormente valorizzate e potenziate per competere con i grandi porti del Nord Europa, i quali, nonostante rappresentino una scelta geograficamente meno conveniente, possono accogliere volumi di merci nettamente superiori provenienti dalla tratta commerciale che arriva dall’Asia.

Una questione geopolitica ma anche economica. Il sistema nazionale marittimo vale il 3% del PIL. Un terzo degli scambi commerciali internazionali avviene via mare, una quota seconda soltanto al trasporto su gomma. Anche il traffico passeggeri è una voce importante, in cui spicca la dimensione del settore crocieristico: 12 milioni di passeggeri trasportati nel 2019, la quota più elevata del Mediterraneo. Nonostante i numeri siano dalla sua parte, il sistema portuale italiano ha perso quote di mercato, soprattutto nei confronti di competitor più agguerriti come i porti egiziani (Port Said) e quelli spagnoli (Barcellona).

Un ministero del Mare sarebbe potuto essere un messaggio importante ai nostri alleati, partner e competitor, ma anche un segnale, in una fase storica così particolare, con lo scopo di indirizzare l’attenzione in un’area strategica per gli interessi e soprattutto la sicurezza dell’Italia. D’altronde, in politica le scelte simboliche hanno anche delle ricadute molto pratiche e tangibili.

Un’occasione persa

La questione deleghe ha spento tutto l’iniziale entusiasmo nei confronti del nuovo dicastero. All’inizio si vociferava che a Nello Musumeci sarebbe andata soltanto la delega al demanio marittimo, mentre Salvini avrebbe conservato quelle ai porti e alle capitanerie. Alla fine è andata proprio così, se non peggio, e le speranze di un ministero di ampie vedute, con poteri tangibili e in grado di gestire il bollente dossier Mediterraneo, si sono scontrate con il puro opportunismo politico di un governo che si professa omogeneo ma che, in realtà, non lo è per nulla. I commentatori ritengono che il dicastero di Musumeci sia solamente un “premio” per aver accettato di essersi fatto da parte nelle elezioni regionali in Sicilia.

Non è sbagliato affermare che il fortissimo indebolimento delle funzioni del dicastero di Musumeci in favore delle Infrastrutture del leader della Lega rende totalmente inutile – dal punto di vista strettamente “politico” – un ministero del Mare in grado di gestire in modo strategico la ripartenza italiana nel Mediterraneo. Salvini si tiene le deleghe più importanti, mentre anche sul Sud il tutto si risolve in un nulla di fatto. I fondi del PNRR, che comprende anche quella quota di investimenti che sarebbe stata riservata al Mezzogiorno, li gestirà Raffaele Fitto, nuovo ministro per gli Affari Europei. A Musumeci resterà soltanto la delega sui balneari, una scelta forzata dato il conflitto di interessi del ministro del Turismo Santanché, proprietaria di uno stabilimento tra i più grandi d’Italia.

Il fatto che in campagna elettorale e durante la formazione del nuovo governo qualcuno avesse ripreso in mano la questione dell’importanza strategica del Mediterraneo aveva fatto ben sperare circa il suo reintegro nella discussione pubblica. I risultati, però, sono stati abbastanza deludenti e il ministero del Mare si profila, con chiara evidenza, come la classica, e ormai ciclica, occasione mancata.

Donatello D’Andrea

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