L’argomento trattato dal settimo comandamento, “vendita delle municipalizzate”, è oggi agli onori delle cronache politiche perché sia Padoan sia Renzi ne hanno parlato a lungo preannunciando i tagli previsti nella prossima Legge di Stabilità.

Personalmente, anche in questo caso, ho forti dubbi sulla reale volontà di ridurre il numero delle partecipate locali e temo che, ai roboanti annunci del nostro primo ministro, seguirà solo una riforma di facciata utile più alla propaganda piuttosto che al Paese. Le ragioni di questa mia diffidenza risiedono nell’importanza che queste società rivestono nel controllo clientelare del territorio, nella possibilità offerta agli amministratori locali di gestire il consenso assegnando ai “portatori di voti” posizioni utili solo a loro e non certo al bene dei cittadini.

Le cosiddette municipalizzate nascono con la l. 103/1903 che introdusse il principio dell’assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei Comuni sottraendoli all’esercizio privatistico delle concessioni. Questo sistema, nonostante i pessimi risultati sia in termini di erogazione dei servizi sia economici, resistette fino al periodo 1990 – 2000 che definì, attraverso numerosi passaggi normativi, la trasformazione da aziende municipalizzate ad aziende speciali così come regolate dall’art. 114 d. legisl. 217/2000 e successive modificazioni.

Questo passaggio fu dettato dalla volontà da parte dello Stato di cessare il trasferimento agli Enti territoriali degli importi necessari a garantire i servizi sostituendo una tassa con una tariffa per quanto erogato. Come spesso accade in Italia, anche quella che appariva come una buona intenzione si è trasformata in un peggioramento delle condizioni; il fiorire smisurato di partecipate non ha mai garantito, se non in pochi casi, costi minori o migliori servizi, ma piuttosto è diventato un modo per accrescere il potere degli amministratori locali che si sono trovati nella possibilità di assegnare prebende e nuove poltrone svincolati, operando in contesto privatistico, da ogni forma di controllo previsto per i servizi pubblici.

Come vedremo tra poco, queste condizioni hanno favorito il proliferare delle partecipate locali generando anomalie talmente evidenti che non servirebbe neppure la coscienza del buon padre di famiglia – basterebbe un minimo di senso della vergogna – per auspicarne la loro riduzione. Purtroppo la sfacciataggine dei nostri politici ha ormai superato il limite imposto se non dalla norma almeno dalla dignità, e così, nonostante l’obbligo di legge, scopriamo che oltre la metà degli Enti non hanno comunicato i dati di loro competenza in risposta al censimento fatto dal Dipartimento del Tesoro, relativo alle partecipazioni detenute dalle amministrazioni pubbliche al 31 dicembre 2012 (lo Stato che non rispetta le leggi dello Stato!)

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A causa della bassa percentuale di risposte, anche se in crescita, diventa difficile analizzare sia i trend sia i numeri assoluti ed ogni valutazione dovrà tenere conto di questo limite; così, osservando il periodo 2009-2012, possiamo presumere che la crescita delle società partecipate e delle partecipazioni sia imputabile al miglioramento della percentuale di risposta piuttosto che non al loro reale incremento.

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Concentrandoci sui numeri grossi e quindi sulle partecipazioni delle amministrazioni locali, cerchiamo di capire quante siano e di cosa si occupino le società partecipate. Riferendoci al censimento sopra citato vediamo quale fosse la situazione al 31 dicembre 2012:

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Le 7.726 società partecipate possono fornire beni e servizi alle stesse amministrazioni che le controllano, ai cittadini con o senza finalità di lucro o addirittura operare nel mercato in concorrenza con i privati. Cercando di semplificare possiamo raggruppare quindi le partecipate in quattro gruppi a seconda del tipo di attività svolto:

  1. Servizi strumentali: forniscono beni e servizi all’amministrazione locale;
  2. Servizi pubblici privi di rilevanza economica: forniscono servizi senza finalità di lucro;
  3. Servizi pubblici di rete: erogazione dei servizi di elettricità, acqua, gas, rifiuti, trasporto pubblico locale… ai cittadini;
  4. Attività in mercato concorrenziale: aziende che operano nel mercato in concorrenza con i privati.

Qui di seguito il dettaglio per settore di attività:

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Nella valutazione generale è bene tenere in considerazione che non tutte le partecipate sono controllate interamente o per una quota di maggioranza dalle amministrazioni locali ed anzi in taluni casi le quote di partecipazione sono talmente basse da rendere difficile comprenderne l’utilità per i cittadini. Si pensi che delle 35.311 partecipazioni dirette o indirette, il 92,5% non arriva al 50% e più del 78% non supera neppure il 10%. Neppure considerando la somma di tutte le quote di partecipazione delle amministrazioni pubbliche, come se fossero un unico soggetto, la situazione appare molto migliore, con oltre il 52% delle 7.726 società partecipate in cui non si raggiunge comunque il 50%. Come diceva Andreotti, a pensare male si fa peccato ma spesso ci si azzecca, ed allora mi chiedo: non sarà che questo gran numero di partecipazioni di minoranza siano solo utili per distribuire poltrone nei consigli di amministrazione o nelle posizioni apicali di queste società? Forse sarà un mio pensiero maligno, ma secondo voi quanti degli oltre 500.000 dipendenti delle partecipate (di cui 6.551 dirigenti) e quanti delle oltre 37.000 poltrone nei consigli di amministrazione sono utilizzare per “piazzare” gli amici e gli amici degli amici?

Passando all’analisi dei costi per i cittadini non possiamo che armarci di buona pazienza e, considerando l’abilità dei politici nel confondere le informazioni, dobbiamo affidarci in molti casi a delle stime. A fronte di alcuni dati quasi certi (valutati pro quota di partecipazione e riferiti al 2012):

  1. Costo degli amministratori: 450mln
  2. Perdite d’esercizio: 1.200mln

abbiamo molti costi non visibili perché “occultati” attraverso contratti di servizio con le amministrazioni remunerati a tariffe superiori rispetto ai valori di mercato o perché ai cittadini vengono applicate tariffe che coprono le inefficienze di gestione evitando il manifestarsi di perdite.

Come capire quindi quale possa essere il beneficio derivante dalle cessioni delle partecipate e quante possono essere quelle da mantenere in vita (ricordando che i numeri che stiamo analizzando non sono solo confusi ma anche incompleti perché meno delle metà delle amministrazioni hanno risposto al censimento)?

Questo lavoro, che per un comune cittadino sarebbe impossibile, è stato fortunatamente già fatto e presentato (http://revisionedellaspesa.gov.it/documenti/Programma_partecipate_locali_master_copy.pdf) dall’ex Commissario per la revisione della spesa Carlo Cottarelli  che, lavorando su:

  1. Riduzione del numero delle partecipate a non più di 1.000;
  2. Politiche di efficientamento;
  3. Riduzione dei costi di amministrazione

ha ipotizzato un recupero di circa 2/3mld l’anno oltre all’entrata una tantum derivante dalla cessione delle quote detenute dalle amministrazioni locali. Da non sottovalutare la possibilità più che concreta che queste dismissioni abbiano un effetto positivo anche sulla qualità del servizio offerto grazie ad una gestione più attenta.

Così come per i precedenti sei comandamenti, anche con questa proposta s’intende non solo dare evidenza degli sprechi diffusi e dell’incapacità di governare della nostra politica, ma anche e soprattutto far comprendere come la presenza dello Stato e il suo radicamento ad ogni livello è volutamente conservato e quando possibile alimentato, per una smisurata brama di controllare voti e votanti attraverso l’utilizzo di poltrone sicure, benefici e privilegi da distribuire con una sapienza ormai secolare.

Per questa ragione e come detto all’inizio temo che un’eventuale azione sulle partecipate si limiterà a qualche minimo contenimento dei costi che garantirà il recupero di parte delle perdite, ma non scalfirà questa potentissima fonte di controllo politico del territorio.

Corrado Rabbia

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