La genesi del carcere duro non è certo un mistero, soprattutto per chi ha seguito e si è trovato a vivere la stagione degli attentati mafiosi del 1992, affondando le proprie radici in una legge del 1977 che regolava e prevedeva un regime di carcerazione istituito a causa degli anni di fuoco targati col nome terrorismo.

Qualche giorno fa, abbiamo affrontato il tema delle condizioni delle carceri, attraversando i grovigli, le contraddizioni e ciò che di positivo possono offrire tali istituti. Oggi il nostro nuovo percorso ha come epicentro sempre il carcere, ma si dirama verso una detenzione più dura il cui contesto storico ha condizionato non poco la scelta di tale provvedimento.

Il carcere duro – il 41 bis – nasce da una modifica della legge n. 354 del 26 luglio 1975 presente nel quadro normativo dell’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà. La stessa venne modificata e sostituita con la legge Gozzini, il cui nome deriva dal suo promotore Mario Gozzi, il 10 ottobre 1986. La norma introdusse il 41 bis, che non si limitò a regolare soltanto situazioni di rivolta interna o il sistema carcerario italiano, nello specifico, vi erano materie che regolavano la detenzione sotto molti aspetti, come: la libertà anticipata; detenzione domiciliare; permessi premio; affidamento al servizio sociale; estinzione della pena dell’ergastolo e tanto altro.

Successivamente agli avvenimenti sanguinari di stampo mafioso del 1992, Giovanni Falcone ebbe l’idea di estendere il 41 bis anche ai mafiosi. Tuttavia, lo stesso provvedimento  non ebbe successo se non a seguito della Strage di Capaci del  23 maggio del 1992, dove persero la vita il giudice Falcone, la moglie e la sua scorta – e solo allora fu introdotto il provvedimento con decreto legge denominato Decreto antimafia Martelli – Scotti, convertito in legge il 7 agosto del 1992. La legge ebbe diverse proroghe fino al 31 dicembre del 2002 e con successive modifiche nello stesso anno in materia di Trattamento penitenziario, mentre nel 2009 vi furono modifiche correlate alle Disposizioni in materia di sicurezza pubblica.

Il 41 bis nasce da una profonda esigenza: l’obiettivo non è semplicemente regolare la vita di un detenuto qualsiasi, ma evitare che anche dall’interno del carcere vi possa essere ancora potere ed un ruolo gerarchico del detenuto, nonostante la distanza e la stessa detenzione.

I boss, spesso, cercano di mandare messaggi agli stessi affiliati, provano a detenere il potere gerarchico dando disposizioni anche attraverso i minimi rapporti che hanno con la propria famiglia. Non è un caso che qualche giorno fa è stata fatta girare una circolare firmata da Roberto Piscitiello a capo della Direzione Generale dei Detenuti, da Santi Consolo direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e condiviso con Franco Roberti, Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, disciplinando così in particolare i rapporti tra il detenuto e i familiari, nella fattispecie  con i minori. Il decalogo dell’organizzazione del circuito detentivo speciale comprende davvero un po’ di tutto, ecco alcuni punti interessanti dell’articolo 6 riguardanti la consegna e possesso in camera di oggetti e generi: «Saranno altresì consegnate con le stesse modalità di cui sopra: forbicina (con punte rotonde), taglia unghie (senza limetta), pinzetta (in plastica), rasoio in plastica e rasoio personale autoalimentato. Non sono consentiti generi di toeletta in confezione spray e sono ammessi prodotti contenuti esclusivamente in recipienti di plastica».

Leggendo la circolare, si evidenzia quasi in maniera paranoica ma legittima come la vita del detenuto sia controllata e gestita 24h su 24h nei minimi particolari; dagli oggetti alle passeggiate, alla lettura, fino a giungere al divieto di incontrare specifici denuti affinché non vi sia alcuno scambio di informazioni.

Il carcere duro, tuttavia, non è solo sinonimo di 41 bis ma anche di condizioni inumane e precarie dei luoghi di detenzione. 

Basti pensare alla famosa – e purtroppo reale – cella 0 di Poggioreale e, chissà, in quante possibili celle simili sono sperperate violenze e vere e proprie torture sui detenuti, nel silenzio e nell’indifferenza di tutti: tranne delle mura che non possono raccontare storie che per davvero esistono, hanno nomi e cognomi, identità, accolgono urla, rabbia, pianti e sangue vivo, mentre il dolore pulsa e brucia sulle ferite di un passato scelto per sbaglio delle volte.

Nei luoghi di detenzione c’è sempre una cella 0, c’è sempre quell’aria viziata e qualcuno che ti giudica prima del terzo grado togliendoti la vita a forza di botte: le storie da raccontare sono tante, basti ricordare Stefano Cucchi, Simone La Penna, Marcello Lonzi, Manuel Eliantonio e ancora tanti esseri umani che stavano pagando con la detenzione i propri errori. Eppure, qualcuno ha deciso per loro che non bastava, che l’unica legge per punire chi sbaglia fosse la violenza, i cui errori possono essere scontati, certo, con la morte programmata da un Dio imperfetto chiamato uomo.

Una società malata ha sì bisogno di luoghi di detenzione, ma una società che tutela i diritti e i doveri di ogni singolo cittadino, che si prende cura delle fasce deboli e che tende a distribuire la ricchezza in maniera non eguale, ma equa, non sarebbe sicuramente una società violenta, la cui necessità è internare i “malati”, prodotto della società che genera il virus ma non gli anticorpi; si preoccupa di costruire luoghi di detenzione ma non di distribuire il lavoro. Insomma, la contraddizione è all’apice e non alla base, provare a ghettizzare l’effetto e a non estirpare la causa, purtroppo, non porterà esiti positivi, ma solo la costruzione e la trasformazione di democrazie in pseudo democrazie.

Bruna Di Dio

Bruna Di Dio
Intraprendente, ostinata, curiosa professionale e fin troppo sensibile e attenta ad ogni particolare, motivo per cui cade spesso in paranoia. Raramente il suo terzo occhio commette errori. In continua crescita e trasformazione attraverso gli altri, ma con pochi ed essenziali punti fermi.

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