Ci sono tematiche che per quanto possano essere ricche di spunti riflessivi, circondano l’intelletto in capsule di dogmi, già preconfezionati e quindi convenzionalmente assecondabili. Per quanto possano essere ostiche, tali tematiche, il livello da affibbiare all’efficienza dell’informazione pubblica dovrebbe costantemente progredire: ma non è il caso, se parliamo della pena di morte.

Che si apra il toccante sipario della disumanizzazione, circoscritto dalle poco moralistiche polemiche fra giustiziato e giustiziere. Una volta decorato lo studio passivo degli eventi, con la sopraffatta condizione psicologica destinata ai condannati, realizzate, filosoficamente parlando, l’incognita per eccellenza riguardo la privazione dell’essere, o comunemente detta, “la pena capitale”.

Victor Hugo, romanziere francese, scrisse dell’ultimo giorno di un condannato a morte, incalzando l’empatia secondo cui solo raccontandone le sensazioni, le testimonianze dei traghettati verso l’ignoto, si arriverebbe alla conclusione che la pena di morte non ha mai avuto legittimità d’esistere.

Concretizzò motivi etici e religiosi ordinati dalla dialettica romantica, provando a contrastare una legislazione devota alla spettacolarizzazione della vendetta, dell’uccisione come risoluzione finale per la redenzione. Eppure, nella società ottocentesca, attirata dalle avanguardie e incatenata alle tradizioni, Hugo partecipò come acutissimo ispettore delle politiche di convenienza: alla  narrazione introspettiva di un condannato a morte, infatti, si affianca rilevantemente la storia di quattro ministri per cui si pensò l’abolizione della decapitazione.

Interessi politici, fruizioni di vantaggi, ostacolarono l’intero assetto politico, che ciononostante non sapeva garantire uno scardinamento ideologico in merito ai trattamenti estremi, badando solo alla momentanea manipolazione giuridica. D’altro canto, l’autore non fu strumentale da limitarsi all’attacco contro l’apparato delle toghe, figure inclini alla ragionevolezza dell’anima; ma proprio la degenerazione verso la distruzione dell’uomo, fa da postilla ad un saggio psicologico, su cui fermentare le basi dei principi di giustizia, dei diritti umani.

Come citato nella prefazione di questo classico, “lavarsi le mani è bene ma impedire di scorrere il sangue sarebbe meglio.” Senz’altro Victor Hugo poneva attenzione alla maestosità dello sconto della pena, della rieducazione civile, dell’asservimento ai principi di rispetto e libertà di esistere anziché ai padroni. Con un breve ed intenso monologo, riuscì ad esteriorizzare la condizione sentimentale con cui un uomo patisce la realizzazione del travaglio verso la morte.

Momenti di volubilità improvvisa, suscettibilità permeata dalla frustrazione e dal castigo dell’impotenza, accettazione e attesa del patibolo, compatimento per una realtà esterna fatta di incomprensione ed indifferenza: queste, banalmente racchiuse, le celeri gabbie emotive in cui un condannato a morte può risiedere fino all’esecuzione. Senz’altro, in molti avranno accompagnato il grande e grosso John Coffey verso il desolato Miglio Verde, colorato di una speranza insopportabile perché inutile e destabilizzante. E senz’altro, noi tutti, coscienti della finitezza del nostro percorso esistenziale, abbiamo immaginato fugacemente il momento dello svanimento, incosciente, labile e naturale, ma pur sempre traumatizzante.

Ebbene, Victor Hugo, con guanti di coraggio e penne affilate negli estremi, ricamò la memoria trascurata e tutt’ora immemore, di come si sente un condannato a morte. Non stiamo affatto discutendo di quanto sia giusto o meno condannare un uomo, o delle modalità con cui egli debba rispondere per le sue azioni attraverso le pene. Ma bisognerebbe riflettere sulla sensazione di angosciante attesa, riconducibile ad una tortura psicologica inflitta con lo sdegno e probabilmente con odio verso il prossimo, se non si riesce a comprendere la raccapricciante dinamica di queste parole:

“Dicono che non è niente, che non si soffre, che è una fine dolce, che la morte in questo modo è davvero semplificata. Come mai, allora, quest’agonia di sei settimane e questo rantolo di un giorno intero? Che cosa sono le angosce di questa giornata irreparabile, che scorre così lenta eppure così veloce? Che cos’è questa scala di torture che sfocia nel patibolo? A quanto pare questo non è soffrire. Non si tratta forse delle stesse convulsioni, come quando il sangue si esaurisce goccia a goccia, o come quando l’intelligenza si spegne pensiero dopo pensiero? E poi, sono proprio certi che non si soffre? Chi gliel’ha detto? Si è mai sentito che una testa tagliata si sia drizzata sanguinante dalla cesta e abbia gridato al popolo che non fa male? Ma si sono mai messi, soltanto con il pensiero, nei panni di chi è là, nell’attimo in cui la pesante lama che cade morde la carne, rompe i nervi, spezza le vertebre?”

Alessandra Mincone

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