«Se il popolo vuole la pena di morte, i partiti seguiranno la sua volontà» è quanto affermato da Erdoğan in occasione della manifestazione del 7 agosto. La Turchia, austera e orgogliosa, non presta ascolto né agli ammonimenti, né ai dubbi dell’Unione Europea.

La manifestazione “per la democrazia e per i martiri”, secondo le fonti, avrebbe mobilitato circa un milione di turchi. Di particolare rilevanza è stata la presenza dei due maggiori partiti dell’opposizione, il Partito Popolare Repubblicano (CHP) e il Partito del Movimento Nazionalista (MHP): il presidente, difatti, ha radunato il popolo in nome della Turchia e non del proprio schieramento politico – un’unica bandiera sarebbe stata sventolata: quella della nazione turca.
Il fallimento del golpe, festeggiato da gran parte della cittadinanza, rafforza ancora una volta il potere e l’influenza di Erdoğan, oramai così sicuro delle robuste mura del proprio Stato da ignorare gli avvertimenti dell’UE e al contempo rivolgere ai Paesi Membri accuse tese a mettere in discussione l’esistenza di un reale appoggio al governo della Turchia. Quanto agli Stati Uniti, Erdoğan è irremovibile: l’estradizione di Gülen non è una richiesta, bensì un dovere che l’alleato NATO deve scegliere se adempiere o meno.

Il 15 luglio 2016 ha di fatto mutato gli equilibri del palcoscenico internazionale. La Turchia, probabilmente già intollerante alle pressanti richieste dell’Unione Europea finalizzate all’adesione e decisa a riallacciare i rapporti con i vecchi alleali – Israele e Russia –, ha sfruttato e ancora sfrutta l’attentato alla “democrazia” per ottenere più di un vantaggio: da un lato, la possibilità di estromettere dalle cariche pubbliche coloro invisi al presidente – tutti accusati di essere sostenitori di Gülen e pertanto una minaccia per lo Stato –; dall’altro, l’occasione per rifiutare di accondiscendere alle richieste dell’Unione Europea e riavvicinarsi alla Russia in nome di interessi comuni.

L’incontro a porte chiuse, salvo sporadiche dichiarazioni pubbliche, tra Erdoğan e Putin non ha solo sancito una ritrovata intesa, ma ha anche evidenziato la differenza tra l’atteggiamento della Russia e dell’UE nei riguardi della Turchia – «Mi dicono che sono stato tra i primi a telefonare per esprimere la mia solidarietà. Del resto è questa la nostra posizione: noi siamo sempre contro ogni tentativo di colpo di stato e sosteniamo i governi legittimi» ha affermato Putin.
Il presidente turco non ha fatto mistero che uno dei propositi sia quello di creare le basi per «sviluppare rapporti con la Russia nel settore della difesa», in un chiaro riferimento sia al pericolo rappresentato dallo Stato Islamico, che alla volontà di creare alleanze al di fuori della NATO.
Tuttavia, l’intesa tra le due nazioni dovrà comunque affrontare problemi di non secondaria importanza: al-Assad e i curdi. Riguardo al primo, mentre la Turchia sostiene la posizione USA e dunque ritiene che il presidente debba essere destituito, la Russia sostiene la legittimità del governo siriano; riguardo al secondo, i curdi, etnia vessata dal governo turco, combattono al fianco dei russi a sostegno di al-Assad e contro i militanti dell’ISIS. Dalle informazioni trapelate è possibile dedurre che l’incontro del 9 agosto non abbia ancora posto rimedio a queste controversie, così come è lecito credere che siano state accantonate anche le accuse rivolte da Mosca alla Turchia in merito alla spinosa questione dei rapporti commerciali con l’ISIS.

«Presto o tardi gli Usa dovranno fare una scelta. Scegliere tra la Turchia, un Paese democratico, o Feto, l’ideatore del golpe», dichiarazione che ribadisce ancora una volta la linea d’azione di Erdoğan: malgrado le cosiddette “purghe” ai danni dello stato di diritto, il presidente continua a ribadire come il suo sia uno Stato democratico in cui a governare è un gruppo politico attento alle necessità e alle richieste della cittadinanza. Su questi stessi presupposti si articolano anche le tensioni con l’Unione Europea, la quale, continuando a intimare ad Ankara di garantire il rispetto dei diritti umani e della libertà di espressione, si porrebbe in antitesi alla democrazia stessa, poiché avverserebbe un governo eletto con la maggioranza del consenso popolare.

Erdoğan, forte del sostegno che parte della popolazione continua a tributargli e della posizione geografica in grado di rendere il suo Stato un interlocutore appetibile per più potenze, sta conducendo una campagna di repressione del dissenso all’interno e all’esterno. Così come i sedicenti sostenitori di Gülen sono ricercati e puniti, allo stesso modo le nazioni che si dimostrano poco inclini a tollerare l’agire del governo turco vengono implicitamente accusate di “tradimento”, tacciate di sostenere i golpisti – nemici della democrazia e del governo legittimo. Un atteggiamento, questo, in grado di “giustificare” un alleato NATO e dell’UE come la Turchia che, adirato, cerca supporto altrove, ossia in quegli Stati che non usano condannare la repressione dei diritti umani e delle libertà.

Tra le nazioni che hanno esternato solidarietà alla Turchia senza recriminarle alcun provvedimento punitivo c’è l’Iran, il cui ministro degli Esteri ha incontrato il collega turco Cavusoglu. L’incontro ha avuto come fulcro la questione siriana: entrambi gli Stati sono difatti intenzionati a porre fine al conflitto in Siria. Parimenti a quanto accaduto in occasione del dialogo con la Russia, la permanenza al potere di al-Assad è un problema rimasto irrisolto.

Relativamente allo stato dei rapporti tra Turchia e Unione Europea, Erdoğan ha chiesto un’accelerazione della procedura finalizzata alla liberalizzazione dei visti, precisando che senza tale misura non verrà rispettato l’accordo sui profughi. Questo tipo di svolta ha destato le preoccupazioni dell’UE, conscia di non avere un piano alternativo capace di contenere il flusso di richiedenti asilo.
L’Europa appare, in questo frangente, vittima di un accordo al sapore di compromesso, che peraltro può contenere il problema, ma non risolverlo.

Rosa Ciglio

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