Dagli stupri agli insulti verbali, dalla violenza domestica allo stalking, dai ricatti psicologici in ambito lavorativo alle pressioni nei reparti di maternità.

Nonostante la crescente sensibilizzazione dell’opinione pubblica e le incessanti lotte dei movimenti femministi, nell’Italia di oggi la violenza di genere è una realtà strutturale e trasversale, dove milioni di vittime e di carnefici si muovono all’interno di uno Stato non sufficientemente abile nel dare risposte di contrasto. E dove si denuncia troppo poco.

A ribadirlo sono ancora una volta i dati. Secondo l’ultimo rapporto ISTAT, nel corso di questo 2017, ogni tre giorni una donna è stata uccisa da un uomo a lei legato sentimentalmente o sessualmente: mariti, fidanzati, ex-conviventi, padri. Lo scorso anno le vittime di questi omicidi sono state 120, più dell’82% dei delitti commessi contro le donne.

Ma il femminicidio — l’omicidio di una donna in quanto donna — è solo l’estremo epilogo di forme di violenza più durature e consolidate all’interno della società: da un’indagine del 2014 è emerso che circa 7 milioni di donne tra i 15 e i 70 anni, quasi una su tre, ha subito nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Undici in media gli stupri al giorno, 4 mila ogni anno. E ancora: quasi 3 milioni e mezzo di donne sono state vittima di stalking almeno una volta nella vita, mentre un milione e 403mila sono state sottoposte, nel corso della propria vita lavorativa, a molestie e ricatti sessuali sul posto di lavoro.

Davanti a uno scenario così preoccupante, ci si chiede se esistano sufficienti strumenti amministrativi e giudiziari a difesa delle donne, e se lo Stato faccia abbastanza per prevenire, proteggere e tutelare la loro vita. Non solo infatti le azioni, soprattutto quelle più estreme, nella maggior parte dei casi sono l’ultimo feroce gesto di una salda e continuativa dinamica relazionale, ma tali atti restano per lo più chiusi nella dimensione domestica delle mura di casa.

A questa constatazione “interna” se ne aggiunge un’altra “esterna”, legata alla società: l’influsso della cultura patriarcale non ha risparmiato tribunali, avvocati, giudici né il sistema giudiziario, all’interno del quale i reati di genere sono stati trattati per troppo tempo con indulgenza e tolleranza. La violenza di genere ha permeato a lungo il nostro codice penale, che ha così contribuito esso stesso a conservare nella società atteggiamenti vessatori e pregiudizi a scapito delle donne.

Basti pensare che fino al 1956 a tutelare le azioni prevaricative del maschio violento c’era lo ius corrigendi, il potere correttivo del pater familias, ovvero il diritto di usare violenza sulla moglie e sui figli per correggerne debolezze e comportamenti non “ortodossi”. E ancora, soltanto nel 1981 è stata abrogata la “rilevanza penale della causa d’onore” (il delitto d’onore), per la quale una condotta “disonorevole” potesse essere una provocazione tanto grave da giustificare la reazione, anche estrema, dell'”offeso” (che era quasi sempre un uomo). Di nuovo nel 1981, grazie al coraggioso rifiuto di Franca Viola, viene eliminato l’istituto del “matrimonio riparatore”, che prevedeva l’estinzione del reato di stupro se il colpevole avesse accettato di sposare la propria vittima, salvando l’onore della famiglia. Bisogna invece aspettare il 1996 per classificare la violenza sessuale come offesa alla persona e non un delitto “contro la moralità pubblica e il buon costume”.

Per anni, dunque, la debolezza e l’onore sono state le chiavi con cui la giustizia ha affrontato la violenza di genere, sottolineando il fatto che da proteggere non fosse tanto la donna in quanto persona con dei diritti, ma il buon costume della società per la quale non esisteva alcuna libertà della donna in ambito sessuale.

Da questo lunghissimo iter giuridico risulta più chiaro capire perché, ancora nel 2012, l’ONU accusava l’Italia di non fare abbastanza, sostenendo che «Femmicidio e femminicidio sono crimini di Stato tollerati dalle pubbliche istituzioni».

Dopo l’introduzione del reato di stalking nel 2009, l’Italia ha aderito nel 2011 alla Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa per la prevenzione e la lotta alla violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, entrata in vigore il 1° agosto 2014. Ma è soprattutto con la legge contro il femminicidio del 16 ottobre 2013 che la politica nazionale ha posto all’attenzione della collettività l’esistenza di questo grave problema. Una legge importante, che però ha preferito premere soprattutto sulla denuncia e sulla repressione, piuttosto che sulla prevenzione e sull’educazione.

Norme quali l’irrevocabilità della querela per stalking e l’incremento dei poteri della polizia per le misure di allontanamento delegano al potere statale e alla dimensione penale e processuale la responsabilità di decidere, anche ricorrendo alla forza, se quella relazione violenta deve essere interrotta, incidendo sull’esistenza della relazione stessa e prescindendo dalla volontà della donna. Non a caso, nonostante la legge, il numero di femminicidi non è diminuito, né sono aumentati i finanziamenti ai centri che sostengono le vittime di violenza. Non sono mancati, inoltre, nuovi richiami all’Italia da parte della Corte Europea dei diritti umani, in riferimento a vuoti legislativi verso alcuni casi specifici di violenza domestica (caso Talpis, 2013).

Queste misure legislative rispondono a un approccio ancora emergenziale, a fronte di una realtà strutturale e trasversale: manca un piano statale di prevenzione e contrasto della violenza di genere, che coinvolga tutti gli ambiti possibili, a partire dalle scuole primarie. Il rischio è che, come aveva già suggerito Christian Raimo tempo fa, la violenza di genere sia passata dall’essere invisibile e tollerata, all’essere stigmatizzata e mostrificata, senza mai essere riportata alla sfera a cui appartiene, quella della quotidianità.

Ecco perché è importante che la strada delle singole leggi sia affiancata da interventi sociali specifici — già attuati da singoli centri sparsi sul territorio nazionale — che si occupino del “recupero” di uomini maltrattanti mediante percorsi terapeutici di presa di coscienza, e della “prevenzione” alla violenza di genere a partire dalle fondamenta, ovvero dall’educazione sentimentale e alla parità di genere che coinvolgano bambini e bambine di tutte le età.

Rosa Uliassi

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