C’è aria di rivoluzione in Turchia, ma anche tanta voglia di rivalsa dopo un risultato elettorale simile. Questo paese ha rappresentato fino a qualche tempo fa un’eccezione tra i paesi di religione musulmana: laico, culturalmente aperto, quasi assimilabile ad un paese occidentale per gli usi e costumi delle nuove generazioni, sempre meno legato all’Islam fin dai primi decenni degli anni ’20 del Novecento, quando Ataturk rivoluzionò il modo di vivere e pensare dei cittadini turchi. Abolizione dell’obbligo di portare il velo, suffragio universale, parità tra i sessi e leggi ispirate a quelle nostrane, era questo era lo stato turco degli anni ‘30.

Nell’agosto del 2014, Recep Tayyip Erdoğan si impone definitivamente sulla scena internazionale come nuovo leader di quei partiti islamico-conservatori, mascherando con una strategia politica moderata l’intenzione di rendere la Turchia nuovamente uno Stato teocratico. A distanza di un anno i cittadini turchi sono stati chiamati a scegliere tra il libero pensiero e l’oppressione islamica, tra l’apertura verso minoranze come il partito filo-curdo e la minaccia di una dittatura guidata da Erdoğan che per risultare vincitore, avrebbe dovuto ottenere i due terzi dei seggi parlamentari. È già iniziata la rivoluzione. C’è la rivoluzione in un paese che dopo 100 anni nega ancora il genocidio degli armeni, che reprime nel sangue rivolte come quelle di piazza Taksim, il cui capo di stato dichiara di non riconoscere le direttive del Parlamento di Strasburgo.

La democrazia ha ripreso un po’ di vita nelle mani di tutti quei giovani che hanno votato domenica 7 giugno, concretizzando così la speranza che minoranze come quella curda, sostenitrice dell’Hpd, che ha ottenuto il 13% dei voti quando sarebbe bastato solo il 10 per entrare in parlamento, possano trovare voce per la prima volta in un organo governativo. In Turchia c’è voglia di nuovo, e quel nuovo porta il nome di Selahattin Demirtaş, un giovane uomo diventato silenziosamente il punto di riferimento per tutti quelli che alle manifestazioni di piazza Taksim credevano davvero, di una sinistra che in Europa oggi fatica a risorgere e che racchiude in sé tutte i sogni degli emarginati e oppressi in un paese guidato da figure come quella dell’attuale Primo ministro turco. Forse la Turchia è ancora lontana dall’essere “europea”, ma in questa occasione ha dato prova che la libertà, come cantava Gaber “è partecipazione”.

 

Giusy De Filippo

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