Il sole dei morenti

ll sole dei morenti è l’ultimo romanzo di Jean-Claude Izzo. Lo scrittore francese portò a termine la stesura nel 1999, e qualche mese dopo, a cinquantaquattro anni, morì. Un cancro ai polmoni gli impedì di vedere pubblicato quello che rimane probabilmente il suo capolavoro, l’ultima firma di una penna cruda e struggente, cresciuta nel solco della poesia e poi divenuta matura in quello del romanzo.
Figlio di Gennaro Izzo, un immigrato salernitano, e di Isabelle, figlia anche lei di immigrati spagnoli, Jean-Claude Izzo nacque nel 1945 a Marsiglia, un crocevia di popoli, odori e sapori che forgeranno per sempre la vena creativa dello scrittore, anche quando sarà costretto, dalla leva militare prima e dai tanti lavori svolti poi, ad allontanarsene per dei periodi. Izzo è uno di quegli scrittori che non si possono immaginare slegati dalla propria terra d’origine, perchè ne fanno parte fino all’osso e ogni loro parola sembra volerlo comunicare con la potenza dell’amore.
Fino a quasi quarant’anni Izzo non pubblicò altro che raccolte di poesie e qualche pièce teatrale: forse non si sentiva pronto per progetti più lunghi, o forse semplicemente non ne sentiva la necessità. Sta di fatto che il suo primo romanzo, Casino Totale, fu pubblicato nel 1993. Ottenne grande successo in Francia, e fu il primo dei tre romanzi che più tardi formeranno la trilogia marsigliese e incoroneranno Izzo padre fondatore del “noir-mediterraneo”, che ispirerà, fra i tanti, anche Andrea Camilleri, ancora prima che Il sole dei morenti vedesse la luce.

Jean-Claude Izzo
Fonte:europaeditions.com

Per quanto non si possa dire che fosse sconosciuto prima, rimane vero il fatto che una vera e propria fama, soprattutto in Italia, Izzo la raggiunse soltanto negli anni appena successivi la sua morte, quando Edizioni e/o cominciò a tradurre e pubblicare le sue opere, e tutta una platea di lettori e scrittori iniziò a farsi travolgere dai suoi romanzi. Scrittura evocativa, frasi brevi e talvolta sconnesse, immagini che attraversano la mente come coltellate, un realismo che va dritto al nocciolo delle cose, senza giri o premesse: se mai davvero esistesse, la linea che separa la poesia e i romanzi di Jéan-Claude Izzo è sottile, tratteggiata, quasi impercettibile. E sarà la pubblicazione postuma, sarà la potenza della storia, sarà la commozione che invade il cuore di chi legge, ma Il sole dei morenti rimane il più lampante esempio di tutto ciò, poiché racchiude al suo interno tutta una serie di fattori che lo rendono, di fatto, devastante.

La storia è quella di un uomo qualunque, Rico, che ha già provato, in un passato ormai avvolto dalla nebbia, a costruirsi una vita normale, quella di ognuno di noi, inseguendo i traguardi di tutti, ma ne è uscito sconfitto, e sta sprofondando nei meandri più bui della società. L’età di Rico è imprecisata, ma non dev’essere anziano, eppure pare aver vissuto tante vite, tante quante quelle che servivano per arrivare a gettare la spugna e perdere ogni speranza di continuare a far parte del mondo nostro, quello dei vivi o presunti tali. E così tira avanti da clochard, senzatetto, barbone, ognuno lo chiami come preferisce: dopo le duecento pagine che compongono Il sole dei morenti, anche soltanto affibbiare un’etichetta al vissuto di Rico fa male, un male insostenibile. Meglio realizzare, almeno per una volta, che anche quegli esseri seduti agli angoli delle stazioni o divorati dal freddo sui marciapiedi di tutto il mondo, hanno un volto, un volto a cui corrisponde un nome. E una storia. Che per quanto dia fastidio accettarlo, non è mai così lontana dalla nostra:

 «Non ho fatto altro che esasperare le logiche del reale e dare nomi e inventare storie per degli esseri che possiamo incrociare ogni giorno per strada. Esseri di cui perfino lo sguardo ci è insopportabile. Voglio dire che leggendo queste pagine chiunque può riconoscersi. I vivi e i morenti»

Questa è la nota di Izzo che precede Il sole dei morenti. E chi siano morenti lo si scopre appena due pagine più in là, nel prologo, dove vengono descritti gli ultimi istanti di vita del migliore amico di Rico, Titì, che crepa al gelo accanto al binario di una metropolitana parigina, dimenticato da tutti, tranne che dal suo amico, che però lo scoprirà soltanto qualche ora più tardi, quando il finto interesse di televisioni e giornali locali divulgherà la notizia, prima di tornare a occuparsi di faccende più interessanti per “i vivi”.
È così, con l’ennesimo episodio straziante della sua esistenza, che si apre l’ultima fase della vita di Rico, la discesa verso gli abissi. Solo e senza più nemmeno la compagnia di Titì, a Rico non resta che ripiegare su se stesso e sul vino, l’unica arma per combattere il freddo che lacera e il peso di ricordi che ancora scottano. Una vita passata a costruire, a combattere. E per cosa? La felicità, qualunque cosa essa sia, inseguita fino allo sfinimento e alla fine mai davvero trovata. Una moglie, un figlio, un lavoro. Grandi cimeli di un uomo senza più nulla, un giorno posseduti e il giorno dopo visti sfuggire. Persi come si perde qualcosa di tasca, senza un vero motivo, senza un perchè che rimetta le cose a posto.

 «È l’amore che sparisce. Ovunque. Proprio così. Fra marito e moglie. Fra padre e figlio. Fratello e sorella. Fra due amici… Porte che si chiudono. Fino all’ultima, un giorno. L’ultima porta dell’inferno.
L’inferno. La strada. La miseria.»

Fonte: repubblica.it

Una strada a senso unico. Ne Il sole dei morenti non c’è redenzione. I pesi nel bagaglio possono solo accumularsi, non c’è modo si scaricarli. La vita è un flusso libero di squarci che rimangono impressi nell’anima e con cui vanno fatti i conti. L’idea di reinventarsi non ha nulla a che fare con Rico, non più.
Si può però rendere un pochino più dolce il sapore del suo bacio con la morte. E allora Rico sceglie di trascinarsi via dal freddo di Parigi, dove i ricordi sanno coccolarlo meglio, verso una Marsiglia più calda e capace di rievocare l’unico amore davvero felice della sua vita, quello per Léa, durato troppo poco e presto sostituito da quello distruttivo per Sophie, che diventerà sua moglie e la madre di Julien, suo figlio.
Abbandonato a sé stesso fra le strade di mezza Francia, quella di Rico diventa una logorante battaglia fra l’istinto a sopravvivere e la conservazione dell’amor proprio, fra la vergogna del dover chiedere l’elemosina e la necessità di farlo, per poter affrontare un nuovo giorno, una nuova notte, un nuovo freddo.
La quotidianità scandita dagli incontri con altri poveri diavoli, affamati e sporchi. L’asticella della dignità che si sposta sempre più giù, la malattia che presto aggredisce i polmoni, la fame, terribile, ogni mattina a fare da sveglia. Sul fondo di innumerevoli bottiglie di whisky riaffiorano amari gli eventi della vita di prima, i volti di tutte le donne amate, femmes fatales alle quali Rico ha sempre offerto pezzi di cuore troppo grandi, tornati indietro feriti e malridotti. Léa, Sophie, Malika, Julie, Mirjana. Una vita scandita da amori irrisolti, episodi inspiegabili, incubi divenuti atroce realtà. Tutto troppo travolgente per uscirne vivi.

Lasciare la strada non si può, si può solo scegliere dove morire, ché «crepare per crepare, meglio crepare al sole». Si può almeno scegliere quel sole freddo e bianco, il sole dei morenti, dove far vibrare le ultime corde su cui ancora si sente il controllo, e distribuire gli ultimi rimasugli di cuore che la vita ha lasciato intatti: quei pezzetti di anima che hanno imparato la saggezza perché sono sempre stati lì, anche durante la tempesta, e che hanno visto scorrere sul corpo di Rico tutta la polvere di una vita.

Daniele Benussi

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