Sentenza Cucchi
Fonte: L'Arena

Se c’è qualcosa che può insegnare la “sentenza Cucchi” della Corte d’Assise è certamente un messaggio di civiltà: un Paese in cui avere giustizia terrena non è un miraggio.

Cosa dice la sentenza

La notizia è di ieri, la Corte d’Assise si è espressa e nella sua sentenza ha condannato i due carabinieri Alessio di Bernando e Raffaele D’Alessandro a 12 anni per omicidio preterintenzionale con l’accusa di aver pestato Stefano Cucchi con pugni e calci; Francesco Tedesco, invece, è accusato di falso ed è stato condannato a due anni e sei mesi, mentre il maresciallo Roberto Mandolini, il comandante della Stazione Appia, è stato condannato a 3 anni e 8 mesi. Da ieri la legge ha finalmente stabilito i nomi e cognomi di coloro che si macchiarono circa dodici anni fa della morte del giovane Cucchi.

Chiunque, dal maresciallo Mandolini alle più alte Istituzioni, ha provato in tutti modi a nascondere la verità, a sovvertire la realtà, ad inclinare anche gli equilibri mediatici condizionando la società civile, lasciando un solo messaggio: “se l’è cercata quel drogato di Cucchi”. Magari non l’hanno espressa in questi termini: non propriamente Mandolini il quale era troppo concentrato a difendere l’onore dell’Arma se di onore, in questo caso, possiamo parlare; a credere che il povero Cucchi non fosse morto a causa della droga è stata la sorella Ilaria, da subito, ed il motivo era molto semplice purtroppo: Stefano era stato evidentemente pestato senza pietà. Oggi una sentenza squarcia questo velo di omertà, di una verità più forte di uno pseudo onore nazionale legato all’Arma. Perché, bisogna dirlo, le morti di Stato non accrescono l’onore e la credibilità dell’Arma.

Con la medesima sentenza si urla al mondo che Stefano Cucchi non è morto nemmeno per epilessia, e che se Stefano non fosse stato pestato in quel modo dai due carabinieri oggi sarebbe vivo. Da vivo, Stefano, avrebbe potuto invertire il circolo vizioso in cui era entrato, avrebbe potuto chiedere scusa sia a se stesso che alla sua famiglia, perfino agli stessi agenti. Invece, Stefano era solo un drogato, sinonimo di nessuno, di un poveraccio. Stefano avrebbe dovuto pagare per i suoi errori, ma non con la morte.

Ilaria Cucchi mostra le tumefazioni del fratello Stefano dopo il pestaggio.
Fonte: Avvenire.it

Cosa ci insegna il caso Cucchi

La famiglia Cucchi in tutto questo tempo ha subito violenza psicologica prima e dopo la morte di Stefano; e solo adesso, con una sentenza della Corte, trova finalmente vicinanza, calore e solidarietà da parte dello Stato e delle sue Istituzioni. La famiglia è stata accusata di voler lucrare sulla morte del giovane Cucchi, di voler fare carriera politica, di “fare schifo” (in questi termini si rivolse Matteo Salvini nei confronti di Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano). Attacchi mediatici, turpiloqui costanti da parte sia di cittadini semplici che di figure con un certo rilievo istituzionale: si pensi oltre che a Salvini, a Giovanardi, il quale imperterrito, oltre a non chiedere scusa, ancora non si convince che Stefano Cucchi fu ucciso. Tumefazioni al volto, fra le tempie e le labbra. Tracce di emorragia fra lombi e inguine. Fratture in due punti della colonna vertebrale. Tutti segni che non lasciano dubbi al medico legale: se Cucchi fosse sopravvissuto al pestaggio con successiva guarigione, avrebbe avuto il 35% di invalidità.

Jorit a Napoli, un murales per Ilaria Cucchi
Fonte: Comune di Napoli

La verità è che questa sentenza ci restituisce un Paese civile e democratico, in cui per davvero la legge è uguale per tutti; Ilaria è stata una grande donna, un simbolo per l’Italia intera, una donna che ha lottato per la sua giustizia ma anche per la nostra, che sia presente o futura. Ilaria con la genuinità dei suoi sentimenti ha raggiunto e stracciato il velo dell’omertà, ma anche della paura, è riuscita a penetrare e a scalfire il muro dell’Arma dei Carabinieri: dove giusto o sbagliato ci si difende sempre. Ilaria, la sorella di Cucchi, ha insegnato che la giustizia è davvero l’ultima a morire, che un drogato non è un dimenticato e può essere perdonato. Che i carabinieri non vanno odiati, non tutti sono uguali, ma soprattutto ha ricordato che la responsabilità penale è personale. Questa donna andrebbe ringraziata, ci restituisce quel senso di civiltà, è lei che con questa vittoria non solo continua ad aver perso un fratello vittima di Stato, ma ci restituisce un pizzico di democrazia da cui ricominciare.

Bruna Di Dio

Intraprendente, ostinata, curiosa professionale e fin troppo sensibile e attenta ad ogni particolare, motivo per cui cade spesso in paranoia. Raramente il suo terzo occhio commette errori. In continua crescita e trasformazione attraverso gli altri, ma con pochi ed essenziali punti fermi.

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