Erdogan alla prova del voto: che ne sarà della sua Turchia?
Fonte immagine: Wikimedia Commons

Il 2023 sarà un anno importante per la Turchia. E non solo perché si celebrerà il centenario dalla fondazione della moderna Repubblica di Turchia. Tra maggio e giugno gli elettori saranno chiamati a confermare o respingere il prossimo mandato, presumibilmente l’ultimo, di Erdogan. Il Presidente mira a riconfermare il proprio ruolo di guida politica e spirituale della “nuova” Turchia, costruita, negli ultimi anni, a sua immagine e somiglianza: aggressiva, volubile e doppiogiochista ma anche incredibilmente tenace, consapevole della propria forza e della favorevole posizione geografica tra due continenti. In politica interna le cose non sorridono ad Erdogan ma lui ci crede. Il Paese dovrà affrontare nuove sfide e consolidare la propria posizione in Medio Oriente e nel Mediterraneo, senza dimenticare i Balcani, il Caucaso meridionale e il nuovo ruolo di interlocutore aperto in Africa.

Il partito del Presidente, l’AKP, è cambiato molto nel tempo, portando con sé una seria e preoccupante involuzione democratica in tutti gli aspetti della vita sociale dei cittadini turchi. Sia la formazione politica che il governo esercitano un capillare ed efficiente controllo sociale su ogni ambito della vita pubblica. Le rivendicazioni di autonomia da parte della società civile stanno crescendo, mentre l’inflazione, che ha raggiunto ormai l’80%, ha gettato il Paese nella più grave crisi economica degli ultimi vent’anni.

Ma Erdogan non cede. Continua a promettere grandi investimenti – come la costruzione di mezzo milione di case in 5 anni – e a coltivare sogni di grandezza per la sua Yeni Türkiye (nuova Turchia), a metà tra il fanatismo religioso e il nazionalismo estremista. Il voto per il Presidente turco è presentato come un “investimento per il futuro”, il quale potrebbe rivelarsi l’atto finale della geopolitica turca per come la si conosce oggi oppure la prosecuzione di un progetto di ampio respiro che mira a fare di Ankara la prima potenza del Mediterraneo.

I problemi interni della Turchia

In questo momento in Turchia è in corso una “caccia alle streghe”, che nelle ultime settimane ha mietuto vittime illustri, tra cui il sindaco di Istanbul, condannato a due anni e sette mesi di carcere per aver insultato alcuni funzionari pubblici nel discorso che fece nel 2019 dopo aver vinto le elezioni comunali. Ekrem Imamoglu è uno dei più grandi oppositori di Erdogan, membro del Partito Popolare Repubblicano (CHP), il più grande partito socialdemocratico laico della Turchia, ostile alle politiche autoritarie del Presidente. Quando nel 2019 Imamoglu vinse le elezioni locali di Istanbul, fu un duro colpo per l’AKP e soprattutto per Erdogan, dato che il leader cominciò la sua carriera politica proprio nella città più importante del Paese, proprio come sindaco. Si arrivò ad occusare il rivale di brogli ottenendo la ripetizione del voto a distanza di qualche mese. La seconda sconfitta del Presidente ha trasformato Imamoglu nel simbolo dell’opposizione ad Erdogan.

Ma Imamoglu non è l’unico che rischia di rimanere fuori dai giochi il prossimo giugno. Più di cento esponenti del partito curdo rischiano di finire in galera mentre la stessa formazione politica verrà messa al bando per presunti legami con il PKK. Anche la stampa, da sempre avversata da Erdogan con ogni mezzo, non se la passa bene, con giornalisti arrestati e finiti in carcere per aver fatto della semplice ironia sul Presidente. Di recente è stata pubblicata una circolare mirante all’adozione di misure volte a “proteggere la cultura nazionale e prevenire la corruzione sociale” contro ogni tipo di attività mediatica che non rispetta i valori nazionali e morali, con particolare riferimento alle trasmissioni digitali e televisive.

Il malessere sociale è tangibile. D’altronde, con una crisi economica come quella turca, la vita non è semplice. Le azioni di protesta per il caro vita sono sempre più diffuse, anche se non sembrano, ovviamente, trovare alcun riscontro mediatico e politico. Se le condizioni economiche sono peggiorate con la pandemia e la crisi energetica, il malcontento politico-sociale non è recente. I primi segnali di una rottura del patto sociale turco si è avuta nel 2013 con le proteste di Gezi Park, dove il governo cominciò a mostrare i primi tangibili segni di intolleranza, dato che la manifestazione fu repressa a colpi di arresti, sevizie, manganellate e lacrimogeni.

Da quel momento la Turchia comprese anche che sarebbe stato difficile rimuovere Erdogan dal suo incarico. Mentre la società mostrava le sue prime crepe e si andava polarizzando, l’AKP penetrava nei gangli del potere mettendo le radici. A quegli anni risalgono alcuni scandali che coinvolgono esponenti vicini all’attuale Presidente e lotte di potere intestine, come quella che ha messo fine al “matrimonio d’interesse” con Fetullah Gülen, della fazione liberale del partito.

I successivi attentati e il tentato golpe del 2016 spinsero verso un’ulteriore stretta sulle minoranze, come i curdi, e all’eliminazione dei “rami secchi” dall’AKP. Dalla proclamazione dello stato d’emergenza – prorogato per ben sette volte – che ha colpito numerosi “nemici della nazione” tra cui giornalisti, ex politici e intellettuali, si è passati all’approvazione del presidenzialismo nel 2017 tramite un referendum costituzionale.

Secondo alcuni studiosi, il 2017 sancisce il rafforzamento della componente radicale islamica all’interno delle istituzione turche. A dire il vero, le prime avvisaglie dell’abbandono della “strada laica” a favore di una radicalizzazione religiosa sono sorte circa dieci anni prima, ma con il rafforzamento del potere di Erdogan sono diventate molto evidenti. Il rinsaldarsi dell’alleanza del Presidente con la religione, per garantirsi la vittoria al referendum e alle elezioni del 2018, ha dato l’impressione ad Erdogan di esercitare un potere pressoché assoluto sulla società turca. In realtà le cose non stavano così. Le amministrative del 2019 hanno inferto un duro colpo ad AKP che ha perso le maggiori città del Paese, palesando tutte le debolezze interne di una formazione politica in crisi di consensi.

Da tre anni a questa parte, tutte le mosse di Erdogan sono tutte indirizzate a recuperare consenso interno. Dagli interventi militari in Siria all’attivismo contro i curdi, fino alla riconversione al culto islamico del Museo di Santa Sofia. Il tentativo di rinsaldare il collante sociale per il Presidente turco è fondamentale per sostanziare le sue ambizioni geopolitiche e tenere il Paese sotto il proprio controllo in vista delle elezioni.

Il richiamo all’Impero Ottomano, sfruttato come fattore psicologico di “memoria collettiva” è uno dei metodi più classici e forse banali usato dai politici per conquistare le simpatie di un elettorato nazionalista. Ma se all’inizio questi espedienti retorici hanno funzionato, ora cominciano a palesare le prime falle. Anche la strategia adottata dagli avversari di Erdogan ha avuto un certo peso nel calo dei consensi. I partiti a lui ostili hanno deciso di unirsi – anche se, per il momento, la ricerca di un leader non procede bene – come nel 2018, con l’unica differenza che si sta pensando di includere nella grande coalizione anche l’HDP, il partito filo-curdo che Erdogan vorrebbe mettere al bando. Per ora il Presidente autoritario turco ha “solo” congelato i fondi del secondo principale partito d’opposizione, ma ci si attende che il Presidente avalli la richiesta di messa al bando dell’HDP presentata da MHP, cioè del “braccio politico” di estrema destra, i “lupi grigi“.

Il protagonismo di Erdogan in politica estera

Appare chiaro che l’attivismo della Turchia in politica estera non sia altro che un modo per sfogare le tensioni interne su obiettivi ritenuti di interesse nazionale e capaci di convogliare il consenso nazionale in un unico obiettivo. A questi propositi fanno eco le numerose dottrine strategiche elaborate nel corso degli anni da vari personaggi di spicco della politica turca. Dalla profondità strategica alla “patria blu”, entrambe dell’ex ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu: si tratta di dottrine che hanno riscosso molto successo tra i nazionalisti turchi e che trovano applicazione in molte delle mosse effettuate dal governo di Erdogan.

Dall’Armenia ai Paesi del Golfo, passando per l’Egitto e Israele. Ankara predilige l’utilizzo del soft power, anche se non disdegna le prove di forza come accaduto a Cipro, in Siria e in Libia, per perseguire i propri obiettivi di politica estera. L’azione diplomatica mira a fare della Turchia un interlocutore forte e autorevole nella regione, facendo perno anche sulle complementarietà strategiche e commerciali, con il fine di attrarre investimenti ed incentivare l’esportazione di prodotti e armamenti turchi. Obiettivo, quest’ultimo, riuscito soprattutto nell’ultimo anno grazie al successo dei droni di fabbricazione turca nella guerra in Ucraina. Economici, efficaci e “non americani”, il Bayraktar-TB2 ha conquistato i mercati militari, tanto da essere ordinato da ben 9 Paesi (e il loro numero è destinato a salire).

Alla “diplomazia dei droni” segue un incredibile capacità di sfruttare il proprio peso nella NATO, come nel caso del veto a Svezia e Finlandia. Anche le sue doti di equilibrista, che rendono Erdogan il miglior doppiogiochista sulla scena politica mondiale, non sono da sottovalutare. Da un lato il Presidente condanna indirettamente l’azione russa – l’applicazione della Convenzione di Montreux e la chiusura degli Stretti alle navi da guerra ne è una prova – dall’altro stringe con Putin un accordo affinché la Turchia possa diventare un hub energetico europeo.

L’investimento sulla politica estera da parte del Presidente turco dovrà superare lo scoglio del voto, proprio in vista del quale questo investimento viene sfruttato propagandisticamente. La ricerca ancora faticosa di un leader da parte dell’opposizione e la “giustizia politica” che sta decapitando i vertici dei suoi avversari, accendono le speranze di Erdogan. Ma ciò basterà a promuovere il suo progetto di una “nuova Turchia”, più aggressiva, forse anche più fragile internamente, ma consapevole del proprio posto nella storia?

Donatello D’Andrea

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