Spero che vi siate divertiti guardandomi, come io mi sono divertito a prenderne parte”. Si congeda così Thierry Henry, campione della Francia campione del mondo, da tutti i suoi fan ed ex compagni di squadra. Con una nota sulla sua pagina facebook, la stella transalpina annuncia di appendere gli scarpini al chiodo dopo 20 anni da calciatore, per iniziare una nuova avventura come commentatore di Sky Sport Uk. Dal campo alle tribune, quindi, ma sempre lì a parlare di calcio.

Non poteva essere altrimenti, se ti chiami Henry e hai vinto praticamente tutto ciò che c’era da vincere, e pure da protagonista. “È stato un viaggio incredibile e vorrei ringraziare tutti i tifosi, i compagni di squadra e gli altri del Monaco, della Juventus, dell’Arsenal, del Barcellona, dei New York Red Bulls, e naturalmente la nazionale francese” ha scritto nella sua breve nota sul più famoso social network. Poche righe che hanno al loro interno vent’anni di successi e cavalcate spettacolari.

Tutto comincia nel ’94, quando un Thierry appena diciassettenne esordisce nel campionato francese con la maglia del Monaco guidato da un certo Arsène Wenger, che lo schiera inizialmente ala sinistra perché la sua velocità e il suo controllo palla forse erano più efficaci contro i terzini che non contro i difensori centrali. Wenger venne esonerato e sulla panchina monegasca si sedette Jean Tigana. In campo Henry formava una delle coppie d’attacco meglio assortite di sempre, con un altro giovanissimo predestinato, David Trezeguet, con il quale poi condividerà l’attacco della nazionale e un destino comune (ma diverso) in maglia juventina. Thierry era velocissimo, in grado di spaziare a tutto campo e mettere il pallone proprio dove lo spietato killer d’area David voleva, e insieme riportarono a suon di gol la squadra del Principato nuovamente ai piani alti del calcio transalpino, spingendolo alla vittoria del campionato, della Supercoppa francese e in semifinale di Champions League. Grandi prestazioni che lo porteranno a far parte della Nazionale francese campione del Mondo del ’98 ai mondiali in casa.

Nel 99’ però, dopo 105 presenze e 20 gol in maglia biancorossa, arrivò la chiamata della Juventus, dal campionato più difficile al mondo, in cerca di un sostituto per Del Piero che aveva terminato la stagione già a dicembre per un brutto infortunio al Friuli di Udine. Moggi lo porta a Torino per 24 miliardi delle vecchie lire per dare qualità al reparto offensivo bianconero che senza Del Piero contava sul vecchio Fonseca, Amoruso e Esnaider, oltre all’inamovibile Inzaghi. La Juve è in fortissima difficoltà, tanto da decidere di sostituire in panchina Marcello Lippi con Ancelotti, il quale deciderà di schierarlo in un ruolo non suo, esterno di centrocampo e alla bisogna anche terzino sinistro, per sfruttarne l’incredibile velocità sia in fase di offesa che di difesa. Al termine della stagione saranno solo 3 i gol, due dei quali all’Olimpico contro la Lazio. Una stagione di pochi alti e molti bassi che però sembra essere solo dovuta al gap tra il campionato francese e quello italiano, decisamente più impegnativo, ma che non ne aveva certo messo in dubbio la permanenza a Torino. Qualche frizione con Moggi e la chiamata da Londra di Wenger, il suo scopritore sedutosi sulla panchina dell’Arsenal, lo portano a sorpresa in Premier League chiudendo dopo soli sei mesi la sua avventura italiana.

Proprio a Londra Henry è diventato uno dei più forti calciatori al mondo, inventandosi il prototipo di attaccante moderno, veloce, con una tecnica sopraffina, senso del gol e tanta fantasia, in grado sia di costruire l’azione sia di finalizzarla. Lo dimostrano i suoi 174 gol segnati su 254 partite con la maglia numero 14 dei Gunners, che hanno contribuito a portare il club di Londra Nord a vincere due campionati inglesi, due Community Shield, 3 Fa Cup e alle finali (perse entrambe) di Coppa Uefa e Champions League. Fredde statistiche che non spiegano il perché sia diventato una leggenda dell’Arsenal, così importante che il club, una volta abbandonata la casa storica di Highbury per trasferirsi all’Emirates, gli ha dedicato una statua in bronzo all’esterno dell’impianto che lo immortala nella sua classica esultanza mentre si lascia scivolare in ginocchio sul prato. Nonostante al suo arrivo avesse suscitato molte perplessità, specialmente sul prezzo sborsato per lui, non andando a segno nemmeno una volta nelle prime 8 giornate di campionato e visibilmente spaesato dal gioco rude dei campi d’Inghilterra.

Dopo 8 anni a Londra, a seguito delle dimissioni del vice presidente dell’Arsenal e la traballante situazione di Wenger sulla panchina londinese, si accasa a quel Barcellona che sarebbe diventato quello leggendario che è oggi, e in maglia blaugrana arrivano anche quelle vittorie europee che, con le squadre di club, gli erano sempre mancate. Nell’attacco devastante con Messi ed Eto’o conquista la Coppa dei Campioni a Roma contro il Manchester United, la Supercoppa europea e l’Intercontinentale. Poi, il calo delle sue prestazioni e la contemporanea esplosione di Pedro, lo vedono spesso in panchina, e così “Titi” nel 2010 decide che è ora di cambiare aria e accetta le lusinghe del campionato americano, in cerca di nomi altisonanti per consacrare definitivamente il “soccer” oltreoceano, finendo per vestire la maglia dei Red Bull newyorkesi.

La casualità lo vede segnare il primo gol in amichevole al Tottenham, la rivale più feroce dell’Arsenal (contro i quali segnò uno dei gol più belli della sua carriera, portandosi a spasso la retroguardia degli Spurs sin dalla sua trequarti, proprio sotto il North Bank del vecchio Highbury). Con il suo vecchio club il feeling non si è mai interrotto, tanto che nei periodi in cui la Major League americana è ferma, torna ad allenarsi proprio a Londra per mantenere la forma, e nel gennaio del 2012 addirittura ci torna in prestito, scegliendo la numero 12 perché la 14 era già stata scelta da Walcott. Il 9 gennaio 2012, nella partita di FA cup contro il Leeds, ri-esordisce con la maglia biancorossa, subentrando a Chamakh al 68’, accolto dall’Emirates con un boato. E quel boato lo sentirà ancora solo 10 minuti dopo, quando segna il gol vittoria. E nella sua ultima partita in Premier League, a Sunderland, dove segna l’1-2 decisivo in pieno recupero prima di fare ritorno negli States. A New York il suo bottino totale sarà di 52 gol in 135 partite.

Con la Francia impossibile dimenticare, soprattutto per noi italiani, la sua presenza nella finale di Rotterdam dell’Europeo del 2000, quando un gol di Trezeguet al primo (e ultimo) golden gol regalò la vittoria ai galletti, e quella nella “vendetta” italiana della finale di Berlino del 2006, ma anche la presenza alla spedizione che si ammutinò contro Domenech in Sudafrica. In totale, comunque, è diventato il miglior marcatore della nazionale francese, con 55 gol, anche più di Zidane e Platini.

Un altro dei campioni storici, gli ultimi a cavallo di un calcio passato e quello moderno, che decide di appendere le scarpe al chiodo, dopo Zanetti che ha detto addio a Giugno. Per le vecchie generazioni, ci sono ancora le splendide pennellate di Francesco Totti e Alessandro Del Piero, sebbene in India, prima che il calcio di miliardi, emiri e tycoon prenda definitivamente il sopravvento.

See you on the other side”, ha scritto Henry. Ai suoi fan, calcisticamente parlando, non resta che dirgli “au revoir, Titi”.

Fonte virgolettati : facebook.com/ThierryHenry

Fonte immagine in evidenza: eurosport.com

Michele Mannarella

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