È allarme internazionale per l’ennesimo pezzo d’Africa sull’orlo di una guerra civile, che assume peraltro sempre più i contorni di un conflitto etnico: stavolta è in Burundi che divampa la violenza.

Lo scorso aprile, il Presidente uscente Pierre Nkurunziza annuncia di volersi ricandidare alle elezioni, per ottenere un terzo mandato. Le proteste dell’opposizione si moltiplicano da subito: la ricandidatura e l’eventualità della riconferma vengono considerate incostituzionali e in violazione degli accordi che, nel 2006, avevano posto fine ad una già sanguinosa guerra civile, che a partire dal 1993 aveva fatto circa 300.000 morti. Migliaia di oppositori finiscono subito in carcere, i combattimenti in strada si moltiplicano, un colpo di Stato fallisce in maggio, mentre in giugno le elezioni, non si sa se e quanto truccate, confermano Nkurunziza al potere.

La condanna della comunità internazionale è immediata: gli USA esprimono la loro riprovazione, sollecitando un intervento dell’ONU, che a sua volta invoca la costituzione di una forza di peacekeeping regionale comandata, quindi, dall’Unione Africana. Nkurunziza si irrigidisce di fronte a questa eventualità, che bolla come un’ipotesi di invasione ai danni del suo Paese; ritiene di avere ancora in mano il Paese, nonostante si moltiplichino le dichiarazioni di guerra alla fazione governativa da parte di gruppi di opposizione, che intanto costituiscono falangi armate e assaltano caserme e depositi militari.

È proprio a questo punto, verso l’inizio del 2016, che una crisi politica, come tante se ne vedono in Africa, pare destinata inesorabilmente verso la svolta etnica. Il Burundi ha una composizione etnica molto simile a quella del vicino Ruanda, confinante settentrionale: la maggioranza della popolazione è Hutu, la minoranza è Tutsi. Della prima etnia è espressione il Governo, mentre la seconda è maggiormente rappresentata dall’opposizione. Questo status quo non è rassicurante, perché le due popolazioni sono le stesse che, entrate in conflitto, hanno determinato il tristemente celebre genocidio ruandese del 1994. Secondo le statistiche finora disponibili, sembra che siano di etnia Tutsi i cittadini burundesi più arrestati, al di là della loro militanza o meno nelle file dell’opposizione. Le forze filogovernative, che si identificano nell’esercito coi suoi reparti speciali, nella polizia coi suoi corpi di sicurezza e nelle milizie popolari, che ormai spadroneggiano nelle strade della capitale Bujumbura e nelle province, si sono rese protagoniste di efferati delitti, riportati non solo da fonti interne in contatto con la stampa occidentale, ma dalle stesse Nazioni Unite.

Proprio un rapporto ONU di inizio anno denuncia il rinvenimento di fosse comuni nei pressi di caserme militari e segnala testimonianze di stupri sistematici, avvenuti ai danni delle donne Tutsi per il solo fatto dell’appartenenza etnica. Assumendosi per la prima volta la responsabilità di formulare accuse dirette, l’ONU ha specificato che ci sono forti indizi del coinvolgimento delle forze di sicurezza in questi tragici avvenimenti. Una missione rappresentativa del Consiglio di Sicurezza ha visitato il Paese alla fine di gennaio, sollecitando una rapida soluzione della crisi e la cessazione delle violenze: l’unica convinta, ma tutt’altro che convincente, presa di posizione da parte del Governo burundese è però consistita nella ferma smentita dell’accusa di fomentare il conflitto, bollata come una montatura.

Sembra sia l’esercito, più che la polizia, a farla da padrone in questo momento. Nonostante le numerose defezioni che hanno colpito i ranghi militari, avendo molti soldati scelto di sposare la causa dell’opposizione armata, le forze armate continuano a presidiare le strade e le città: si sentono forti dei mezzi, soprattutto finanziari, e dell’addestramento che alcune fonti attribuiscono ad IMCOM, il programma operativo dell’Esercito degli Stati Uniti che si propone di sviluppare le potenzialità di svariati partners bellici in tutto il mondo. Sembra che l’IMCOM, avuta notizia delle violenze, abbia minacciato di tagliare i fondi all’esercito del Burundi, cosa che avrebbe spinto molti soldati, già sottopagati, a disertare.

Da parte loro, ONU e Unione Africana non sono ancora intervenute per motivi diversi. Se la prima è costretta ad ammettere che non sarebbe logisticamente in grado di affrontare un’eventuale degenerazione delle tensioni, la seconda ha finora ceduto davanti alle negoziazioni bilaterali, condotte soprattutto da Uganda e Tanzania, che hanno tentato di venire a patti direttamente con Nkurunziza per risolvere, nell’immediato, soprattutto il problema dei rifugiati in uscita dal Burundi.

Il Presidente, che evidentemente, finora, non aveva avuto nulla da temere dall’immobilismo internazionale, sotto il peso delle prime pressioni si è dichiarato disponibile a dialogare con gli esponenti dell’opposizione in esilio. In concomitanza, l’Unione Africana ha scelto di nominare proprio il Ruanda come Presidente della sua Commissione per la pace e la sicurezza; tre ufficiali burundesi sono inoltre stati espulsi dalla forza di peacekeeping attualmente operante nella Repubblica Centroafricana, a causa del loro presunto coinvolgimento nelle violenze in patria. Tuttavia, il proposito di inviare un contingente internazionale della stessa natura di quello operante in Centroafrica, la MAPROBU, è stato di nuovo accantonato, mentre cresce ancora il numero di gruppi armati per la resistenza contro il Governo.

Intanto, seguendo una prassi comune a molte crisi africane, non sapendo fondamentalmente cosa fare, l’ONU ha ufficialmente affidato all’ex potenza coloniale del Burundi, la Francia, il compito di fare da mediatore e consigliere delle Nazioni Unite sulla crisi, assecondando la richiesta di Parigi; non è la prima volta che i francesi provano a risolvere da soli le grane delle ex colonie, basti pensare ai bombardamenti condotti unilateralmente in Senegal all’epoca della guerra civile. L’ambasciatore francese all’ONU ha per ora sollecitato un ruolo più attivo della comunità internazionale, incoraggiando una nuova risoluzione.

Anche l’Unione Europea ha deciso di smuovere le acque: un recentissimo comunicato ha fatto presente l’intenzione di procedere con nuove sanzioni contro Nkurunziza e il suo entourage, a 4 membri del quale sono già stati congelati i beni all’estero e vietati i viaggi in territorio UE.

Inevitabilmente, però, qualcosa nel meccanismo diplomatico ha finito per incepparsi. Secondo fonti USA, confermate pochi giorni fa da un rapporto ONU, sembra che il Ruanda stia cercando di influenzare il conflitto in Burundi, addestrando i rifugiati (più di 75.000, su un totale stimato di 250.000) presenti nel suo territorio, compresi i bambini. Manifestazioni filogovernative e contro il Ruanda si sono svolte a Bujumbura. La domanda legittima, però, a questo punto è: cui prodest? Se il Ruanda ha una composizione etnica simile a quella del Burundi, qual è l’interesse ad agitare ancora di più il conflitto? Stando ai pareri riportati da alcuni media, il rapporto ONU su base USA pecca di indeterminatezza e approssimazione: l’interesse del Ruanda sarebbe esattamente l’opposto, ovvero stabilizzare la regione e consolidare la sua influenza locale.

Non sembrano esserci dubbi sul fatto che, come spesso accaduto nei conflitti della martoriata Africa, a capirci poco, o a non volerci capire molto, siano sempre e comunque le Nazioni Unite. Chiedere proprio al popolo ruandese per conferma.

Ludovico Maremonti

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