Perché i contadini indiani protestano contro il presidente Modi
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Le riforme del settore primario presentate dal primo ministro indiano Narendra Modi hanno fatto emergere tutti limiti e contraddizioni socio-politiche, spingendo inevitabilmente i contadini indiani in piazza. Le vivaci proteste, ormai in atto da mesi, proseguono incessanti e mettono a nudo proposte legislative controverse e opinabili ed un sistema agricolo inefficiente, che annaspa da anni. Nello specifico, il presidente Modi ha innescato la polveriera con un pacchetto di tre leggi di riforme che riducono pesantemente i sussidi statali all’agricoltura e incoraggiano gli investimenti privati.

Prima di entrare nel dettaglio, è bene capire il funzionamento del sistema agricolo indiano, per poi analizzare questi interventi legislativi così veementemente contestati dai milioni di contadini indiani.

L’agricoltura indiana fino ad ora

Per dare subito un’immagine della portata demografica ed economica dell’India è bene sapere che: l’India è il 7° stato al mondo per superficie, mentre con 1 380 004 385 abitanti è il 2° più popoloso dopo la Cina, in procinto di superarla nei prossimi anni. Sempre usando come metodo di paragone la nazione del Dragone, l’India segue la Cina come secondo produttore di generi alimentari nel mondo.

Specificazione essenziale è che il 60% della popolazione indiana vive di agricoltura, ma il settore agricolo produce solo il 15% del Pil. Più della metà del miliardo e mezzo di cittadini indiani vive grazie all’agricoltura, di cui l’85% dei quali coltiva meno di 2 ettari di terreno. Un’equazione assurda che rende benissimo l’idea di come il sistema agricolo, e conseguentemente la maggioranza assoluta della popolazione indiana, sia poco interessata dalla crescita economica del paese. Non a caso il tasso di suicidi tra i contadini, costretti ad indebitarsi in modo insostenibile, è altissima: secondo i dati del National Crime Records Bureau, nel 2019 si sono tolti la vita 10.281 contadini indiani e 32.559 lavoratori agricoli giornalieri.

Appurata la tragicità delle condizioni di vita dei contadini indiani, soffermiamoci ora su come il settore agricolo dell’India sia stato gestito fino ad ora dalle istituzioni. L’India è uno stato federale, ciò ammette che le competenze al riguardo siano suddivise tra il governo centrale di Delhi e quelli regionali degli Stati Federati. Fin dalla sua indipendenza, ottenuta nel 1947 a discapito dei coloni inglesi, il tema dell’agricoltura è stato costantemente al centro della discussione pubblica.

L'agricoltura indiana
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Oltre alla miriade di problemi organizzativi e infrastrutturali, e a quelli relativi alle disuguaglianze, allo sfruttamento minorile, alla corruzione e alla povertà, vi è appunto la difficile governabilità del paese, a causa di fragili maggioranze in Parlamento. Il settore, dunque, non è stato mai riformato in profondità, anche per ragioni di impopolarità. L’ostacolo parlamentare non ha interessato Narendra Modi, primo ministro al suo secondo mandato, che ha elaborato una riforma agricola assai ambiziosa, forte di una robusta maggioranza politica parlamentare e di importanti consensi nella società.

Fino ad ora, il sistema agricolo era regolato dalla Commissione Agricola dei Costi e Prezzi e sul Ministero dell’Agricoltura Nazionale. Ogni anno questi organi dichiarano il Minimo Prezzo di Supporto (MSP) per dei prodotti considerati essenziali, come ad esempio i cereali, prima della semina. Successivamente alle disposizioni, milioni di contadini indiani sono obbligati a vendere i loro raccolti ai mercati del governo, ovvero gli APMC’s (Agricultural Produce Marketing Committees). Questo ente vende poi la raccolta all’asta. Altro ente governativo nazionale fondamentale in questo complesso ingranaggio è la Food Corporation of India (FCI), che compra ai prezzi MSP, per poi rivendere alla popolazione.

Negli anni si è affermata una casta di mediatori che acquistano direttamente dai contadini a prezzi al ribasso, salvo poi rivendere ai mercati governativi seguendo il prezzo fissato (MSP), con maggiori profitti. Ad aggravare tale situazione è che questi soggetti “informali”, sono immischiati in rapporti opachi e corruttivi con partiti politici e con il governo centrale. Queste leggi anacronistiche, varate dopo l’indipendenza e mai aggiornate, hanno creato nel tempo svariati ed evidenti problemi. Va inoltre sottolineata la frammentazione dei mercati: è evidente come l’obbligo di poter vendere il proprio prodotto solo nel proprio Stato costituisca un deficit enorme per i contadini. In più, il proliferare degli intermediari ha di fatto impoverito i contadini e fatto lievitare i prezzi.

La riforma: i contadini indiani protestano contro il presidente Modi

Nel settembre 2020, il primo ministro Narendra Modi ha presentato un programma molto esteso di riforma agraria, poi votato ad ottobre dal Parlamento Indiano (ampiamente controllato con una grande maggioranza dal partito di Modi, il BJP). Specifichiamo che tali riforme sono ora bloccate per un pronunciamento della Corte Suprema, che ha anche istituito una commissione per ascoltare le richieste degli agricoltori.

La causa delle manifestazioni, per la stragrande maggioranza pacifiche, sono tre leggi contenute nella riforma: “Farmers’ Produce Trade and Commerce act”, “Farmers (Empowerment and Protection) Agreement on Price Assistance and Farm Service act” e “Essential Commodities act”. Queste leggi, in sostanza, garantiscono il mantenimento dei mercati all’ingrosso, ma tolgono l’obbligo di vendita in questi mercati. Il contadino indiano è quindi libero da ogni vincolo, e di fatto giustificato alla vendita dove e quando vuole. In più la legge vieta ai singoli stati di tassare le vendite, e nella pratica gli APMC verrebbero eliminati.

Dunque, perché i contadini indiani protestano contro il presidente Modi? Il problema di queste riforme, all’apparenza liberali e necessarie, sta nel fatto che le grandi aziende, sia indiane che estere, possano ridurre i prezzi d’acquisto creando un’inflazione sul prezzo di vendita. Molto semplicisticamente, ora sarà possibile far circolare beni agricoli in grandissima quantità, e l’improvvisa commercializzazione in massa degli stessi su tutti i mercati ne abbasserà il valore, colpendo innanzitutto gli agricoltori.

Primo Ministro indiano - Narendra Modi
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Questa condizione, secondo i milioni di manifestanti, darebbe invece un grandissimo vantaggio competitivo alle grandi aziende. Inoltre, si rischia di indebolire sensibilmente il potere di contrattazione dei piccoli agricoltori, già molto basso prima di queste riforme. La Corte Suprema ha cercato di aprire un dialogo tra le parti, la ministra delle Finanze Nirmala Sitharaman ha annunciato una revisione di queste leggi in febbraio, ma il governo ha provato ad imporre, nonostante tutto, la riforma nel suo impianto complessivo. Di contro, i contadini indiani, quasi in blocco, hanno rifiutato ogni proposta, accettando di lasciare le piazze solo quando il governo ritirerà le leggi.

Il risultato di tutto ciò sono milioni di contadini indiani riversati nelle piazze di tutto il paese. E’ facile dedurre, tenendo in conto il peso demografico dell’India e più specificatamente la quota di persone impiegate nel sistema agricolo, che la mole di manifestanti che costantemente ormai presidia le piazze da mesi sia enorme. Aspetto molto interessante, e piccola nota di conforto, è che queste manifestazioni si siano saldate alle richieste di uguaglianza e giustizia dell’universo femminista. Tantissime le donne a difesa degli interessi contadini indiani, tantissime le donne indiane consce che ogni conquista può essere tassello fondamentale nel loro ruolo sociale nel paese. Perché se è vero che ora tiene banco la questione agricola, è vero anche che l’India è interessata da altri innumerevoli problemi, come le difficoltà delle donne in un sistema culturale aspramente patriarcale e che favorisce le disparità di genere.

Per rendere ancora meglio l’idea dell’oceanica folla in subbuglio per la riforma, queste sono le parole di un contadino dell’Uttar Pradesh, riportate sul portale online dell’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale): «Fino ad ora solo l’1% della gente è venuta dai villaggi. Il giorno in cui mobiliteremo il 50% dei nostri, a Delhi non ci sarà più posto per muoversi».

Un epilogo lontano

Questa drammatica situazione sembra essere ben radicata nei problemi dell’India, radicati negli anni. Il perché i contadini indiani protestino contro il presidente Modi è una domanda apparentemente semplice, ma che implica molte risposte, che soggiacciono a tante dinamiche, a tanti meccanismi e soprattutto a problemi socio-economici di differente natura, ormai incancreniti anche dall’operato di stagioni politiche precedenti, tutt’altro che lungimiranti. La folla riversata nelle piazze deve scontrarsi con un personaggio a dir poco determinato e controverso come il primo ministro Narendra Modi. Anni di governo viziato dall‘ideologia nazionalista, illiberale e identitario-induista del partito BJP e di Modi, non hanno fatto altro che l’allargare la crepa di povertà che divide l’esasperata massa agricola dal potere centrale.

Chiusura di Internet, denunce ed arresti per giornali e giornalisti, indisponibilità alle critiche e ferocia della polizia, sono solo alcune delle armi usate dal governo per sedare le proteste, meglio ripeterlo, in maggioranza pacifiche. Ormai però sembra troppo tardi anche per la repressione: come riportato da svariati testate giornalistiche locali, questa protesta può essere definita come la più grande crisi che Modi si è trovato finora ad affrontare. C’è una motivazione aritmetica che giustifica questa definizione: i 650 milioni di contadini indiani, che costituiscono più della metà della popolazione.

Nella più popolosa democrazia mondiale è in atto una scontro aperto, che vede da lontano la parola fine. Per l’ennesima volta gli interessi politici ed economici oscurano i diritti, le rivendicazioni e le aspirazioni dei più deboli nonostante essi costituiscano la stragrande maggioranza, sempre meno inconsapevole. L’unica strada percorribile sembra essere quella del confronto, se non fosse che Modi non è famoso per la sua arrendevolezza e oltre 650 milioni di contadini indiani non possano essere lasciati inascoltati.

Riccardo Seghizzi

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